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Guccini: «Una profezia il mio Dio morto»

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Il cantautore intervistato da «Jesus», rivista dei sacerdoti Paolini

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Almeno nel senso che coglieva un'istanza generalizzata e diffusa di cambiamento, in vista di una Chiesa finalmente aperta alla modernità». A quarant'anni di distanza dall'uscita della canzone «Dio è morto», il cantautore bolognese Francesco Guccini ha concesso un'intervista alla rivista «Jesus» dei sacerdoti Paolini, gli stessi che pubblicano il settimanale «Famiglia cristiana», per parlare del suo successo nel mondo cattolico. «Certo, io resto un agnostico!», confessa Guccini. «Oggi, in ogni caso, la situazione è totalmente cambiata, e resto perplesso anche di fronte alle analisi che dicono di una rivincita di Dio. Le vocazioni, ad esempio, stanno calando - ricorda il cantautore - ed è un segnale che è preoccupante. Ma le mie perplessità aumenterebbero ancor più se lo specchio di tale tendenza fosse considerato il fenomeno dei cosiddetti "atei devoti", che percepisco come un incredibile controsenso. Basterebbe osservare il percorso intellettuale di alcuni di loro». Argomenta ancora Francesco Guccini: «Mi preoccupa, da un lato, l'aumento del codinismo reazionario - i teocon degli Stati Uniti, ad esempio, e il tentativo di ritornare al creazionismo come spiegazione scientifica - e dall'altro mi colpisce la paura dimostrata dalla Chiesa nei confronti di un brutto giallo come "Il Codice da Vinci", perchè dà l'impressione di sentirsi accerchiata dal moderno. Quasi dimenticando che, se la Chiesa è durata tanto, alla fine, è perchè son bravi». Ma come si spiega Guccini che un cantautore agnostico, tendente all'anarchia, sia così amato dal mondo cattolico? «Piaccio alla Chiesa? Beh, forse perchè il mondo cattolico più aperto coglie in me - risponde - soprattutto la coerenza, l'indignazione per gli approfittatori e per chi è abituato a baciare la mano al potente di turno. Dietro le mie canzoni non ci vede nessuna sovrastruttura o strumentalizzazione! In effetti Dio è morto, censurata dalla Rai, veniva trasmessa alla Radio Vaticana, e lo stesso Paolo VI - così almeno narrano le cronache di allora - definì il mio testo un lodevole esempio di esortazione alla pace e al ritorno ai giusti princìpi morali».

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