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Nella sua vita una missione: leggere e capire

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È poeta di suo, si chiama Giuseppe Amoroso, e insegna Lettere all'università di Messina. Dal suo osservatorio privilegiato segue il va e vieni delle copertine colorate, come se fossero vele di vascelli che salpano o gettano l'ancora. Si aiuta, a quanto dicono, con un cannocchiale da ammiraglio, potente come un microscopio, e con quello misura la stazza dei libri, i colori del gran pavese e la grinta dell'autore al timone. Come diceva Leo Longanesi, un vero capitano si giudica dal modo di camminare sulla tolda in mare mosso; e un buon libro si annusa dalle prime righe. L'acribia professionale di Amoroso, sostenuta da una febbre divorante per le "fantasie metafisiche", ricorda l'opera critica di Enrico Falqui, che per decenni diresse questa terza pagina. E al pari di Falqui, cui molto somiglia, Amoroso cerca nel deserto della banalità scrittoria le pepite d'oro di un nuovo talento. Gli amici e gli studenti del suo ateneo, pur stimandolo molto, ogni tanto lo prendono in giro per la smodata passione per la lettura. Qualcuno l'ha soprannominato Diogene di Sinope, non certo perché cammini a piedi nudi con qualunque tempo al pari del filosofo greco (ché anzi Amoroso veste con eleganza britannica), ma per il fatto che gira notte e giorno per la città inseguendo l'assoluto. E come Diogene vagava per le vie di Atene con una torcia in mano anche al sole di mezzodì, biascicando «cerco un uomo»; così il professore messinese perlustra salotti e stamberghe, grotte e cascinali con uno scopo solo: «Cerco un capolavoro». Ora si sa che i capodopera sono più rari dei quadrifoglio e quando va bene ne spuntano due o tre per secolo; ma pur sapendolo, Amoroso non demorde. E la sera, vestendo i panni nobili come faceva Boccaccio prima di sedere al tavolo di scrittura, Amoroso compulsa i romanzi "vien-de-paraitre" o perfino quelli ancora manoscritti. E siccome lui non sa mentire, in quanto teme i fulmini punitivi delle Muse, informa l'autore in trepida attesa «che sì, l'impegno c'è, la lingua è viva, ma il bersaglio grosso, ahimé, non è stato centrato...». Questo contegno rigoroso, confermato dalla sua ultima silloge di recensioni («Nelle storie degli altri», Rubbettino Editore), mi ricorda un episodio sinora inedito, che mi rivelò Giuseppe Prezzolini nella sua conventuale soffitta di New York. Nei primi anni del Novecento, Prezzolini diresse con Giovanni Papini una rivista che svecchiò la cultura italiana, «La Voce». I due intellettuali, allora molto giovani, vivevano in una sorta di osmosi e ciascuno conosceva i più reconditi pensieri dell'altro. Una notte Papini mise la parola fine al romanzo che molti considerano il suo più importante, «Un uomo finito». E ovviamente Prezzolini fu il primo a leggerlo, e in una sola notte. «All'alba - mi raccontò Prezzolini - mi sentii in dovere di mettere a nudo il mio giudizio, senza fronzoli o ipocrisia. E così scrissi: "Mio caro, mi hai coinvolto e commosso. Ma debbo dirti che sei arrivato a un passo dal capolavoro, ma centrato no, ti è mancato di un soffio"». Amoroso è fatto di quella pasta o grano duro, sente che perderebbe il rispetto di sé qualora mentisse per pietà o convenienza. «Magari sbaglio - si scusa - ma è ciò che penso». E così rintracci nella sua prosa chiara come quella di certi saggisti del Settecento frasi taglienti come questa: ...«il romanzo cammina, ma scarseggiano i fatti»; oppure: «non c'è trama, solo trauma». Chiunque voglia guardare nel profondo l'evoluzione della narrativa italiana dell'ultimo quarto di secolo non può fare a meno dell'opera di Giuseppe Amoroso. Passo passo, egli ha seguito e scrutinato i romanzieri e novellieri della penisola, da Calvino a Pasolini, da Gadda a Soldati, da Piovene a Camilleri. Ad ogni paio d'anni egli presenta puntualmente le sue "sudate carte" in volumi ben curati, dai titoli suggestivi. Ne cito alcuni, piluccando dalla mia libreria: «Il notaio della Via Lattea», «Il cenacolo degli specchi», «Le sviste dell'ombra», «S

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