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Giorgio Garuzzo, ex dirigente del Lingotto, racconta in un libro venti anni di vita nella Fiat

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Quando Agnelli gettò la spugna

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A pronunciare queste parole, nel 1976 non fu qualche sindacalista d'assalto pronto a seguire i dettami di Karl Marx, ma il principale protagonista della storia industriale di quegli anni: l'avvocato Giovanni Agnelli, che di fabbriche targate Fiat in Italia ne aveva molte. Sono parole che la storia ha smentito. Ma che testimoniano la sensazione di disfatta che si respirava in una Torino stretta nella morsa degli scioperi e della forte contrapposizione sociale. Il pessimismo cosmico fu confidato dall'Avvocato al giovane Carlo De Benedetti, allora brillante manager chiamato nel '76 per avviare il rilancio del marchio automobilistico. Un compito arduo in un epoca in cui il boom della prima motorizzazione in Italia era finito e in cui le crisi petrolifere cominciavano a scoraggiare i maniaci della cilindrata. Ma la sfida fu raccolta. E De Benedetti portò con sè un altro giovane, Giorgio Garuzzo, desideroso di mettere a frutto le sue prime esperienze manageriali. Il classico uomo di fiducia su cui ogni dirigente conta per impostare i cambiamenti in azienda. Lesto ad arrivare e altrettanto veloce a seguire l'eventuale dimissionamento del capo. Non fu così. De Benedetti chiese poteri speciali per la ristrutturazione del Lingotto. Agnelli glieli negò, e il manager uscì dopo solo cento giorni da Corso Marconi. Garuzzo no. Rimase per altri 20 anni a impostare strategie e nuovi prodotti per Fiat, la sua permanenza durò fino al 1996. E nel suo libro «Fiat, i segreti di un'epoca» (Fazi, 451 pagine, 23 euro), ci offre uno specchio della storia dell'azienda automobilistica che è anche la storia italiana. Partiamo da De Benedetti, della sua permanenza al timone della Fiat e della sua rapida destituzione si disse di tutto, anche che il giovane rampante era pronto a impadronirsene tramando per togliere agli Agnelli il controllo azionario. Garuzzo fa luce sulla dietrologia fatta sull'avvenimento: «De Benedetti lasciò la Fiat soltanto per una crisi psicofisica personale, nonostante i successi ottenuti e la vittoria che si stava delineando». Nessun complotto dunque. De Benedetti anzi era a un passo dal mettere in piedi nuovi progetti per rafforzare una Fiat stanca e senza idee. Come il lancio del modello Panda. Sì, l'utilitaria simbolo degli anni '80 nacque da un lampo di genio dell'Ingegnere di Ivrea. Non bastò. E Garuzzo si trovò da solo e confermato nel suo incarico. La Fiat continuò a vivere e anzi trovò le forze per ruggire ancora sui mercati internazionali. Un rilancio favorito dal lavoro sotterraneo di tecnici d'eccezione, i cui meriti sono stati sempre poco vantati all'esterno. Ed è forse in quei momenti che si trovano i germi della malattia, quella scarsa competitività che ancora oggi attanaglia l'impresa italiana, frutto di una concentrazione eccessiva sulla finanza, e di pochi investimenti sulla ricerca. Garuzzo individua uno dei principali responsabili di questo filone di pensiero in Enrico Cuccia, patron di Mediobanca, secondo il quale il «know-how è una merce che si compra come le altre». Sbagliato. L'intelligenza trenta anni dopo è l'unica variabile che distingue un paese avanzato da uno meno sviluppato. Il dirigente cita l'esempio del Robogate di una delle aziende satellite dell'universo industriuale torinese. Un sistema di costruzione di automobili completamente automatizzato. Una normalità oggi, ma allora portatore di una vera e propria rivoluzione nell'organizzazione lavorativa della fabbrica. Nonostante gli assalti ideologici: no alle macchine che sostituiscono l'uomo, il Robogate è il genitore di tutti i moderni sistemi produttivi. Un esempio del genio italiano solo tardivamente riconosciuto. La sfida del rilancio della Fiat Auto fu raccolta da un altro uomo che avrebbe fatto la storia dell'automobile italiana: Vittorio Ghidella. Che fu il primo a capire come la causa della perdita di prestigio del marchio era dovuta al fatto che le auto di Torino costavano ancora troppo rispetto alla qualità esibita. Il controllo dei costi divenne una delle leve di azione più import

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