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L'epoca d'oro dei registi scrocconi

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Qua e là duole ancora un pochino, ma finalmente se ne può riparlare a viso aperto. Si tratta del famoso «Art. 28» della legge 1213 del 1965, la stessa che per quasi trent'anni ha governato, nel bene e nel male, il cinema italiano dalle sue massime glorie all'asfissia del mercato e dei contenuti. (en passant: fa piacere notare come tra i primi 5 incassi della settimana ci siano ben tre film nazionali. Non accadeva da molto tempo, neppure nel periodo delle commedie natalizie). L'occasione per «sbendare» la ferita è un libro. Alto quanto un volume della Treccani. Stiamo parlando delle 560 pagine del «Catalogo generale dei film finanziati con l'art. 28» (Roma - Pagine editrice/Cinecittà diritti - 29 euro, curato in particolare da Michele Lo Foco e Alessandro Usai). «Larticoloventotto», tutto attaccato, come si diceva negli suoi anni d'oro, i Settanta e gli Ottanta, epopea del cinema d'autore finanziato con i soldi dello Stato, era un dispositivo della legge 1213 del 1965 in cui era previsto che lo Stato sostenesse con un fondo particolare il cinema di qualità. Grazie a questo intervento furono girati 490 film. «Era una legge avanzata» come scrive giustamente nell'introduzione Gaetano Blandini, giovane ed espertissimo direttore generale per la Cinematografia al Ministero dei Beni Culturali, perché non si limitava a supportare il cinema in senso strettamente industriale ma in quanto «aveva pensato anche al cinema di qualità introducendo un complesso di meccanismi dedicato, appunto, a favorire i giovani nel momento più delicato del loro esordio». Quelle opere prime, cioè, che avevano difficoltà a trovare un produttore disposto a sostenerne l'intero costo proprio perché un regista esordiente non lo conosce ancora nessuno. Se i prestiti concessi non venivano restituiti, lo Stato diveniva il titolare dei diritti del film prodotto. «L'articolo 28 è stata una palestra importantissima - ha sottolineato Blandini, di nuovo a ragione - che ha consentito di emergere ed imporsi a molti talenti, tra i quali ricordo ad esempio registi come Pupi Avati (3 film, da "Zeder" a "Una gita scolastica"), Gabriele Salvatores ("Marrakech Express"), i fratelli Taviani (6 film, da "Sotto il segno dello Scorpione" a "Sovversivi"), Sergio Rubini ("La stazione"), Nanni Moretti (con "Ecce Bombo"), una lista che potrebbe continuare dimostrando che per lo Stato non si è trattato tanto di un semplice finanziamento bensì di un vero e proprio investimento nel cinema di qualità che ha dato grandi risultati» E allora perché per tanto tempo l'articolo 28, (sostituito nel 1994 da un altro tipo di finanziamento, i cui film non sono compresi nel catalogo) è stato avvertito come fosse una ferita, come un disagio per gli addetti ai lavori (e questo al di là di alcune iniziative della magistratura, nei primi anni '90, peraltro tutte finite nel nulla)? Perché come molte norme «umanistiche» figlie dei nobili ideali politici, talvolta sperimentali, degli anni '60, anche l'art 28 è stato via via svilito e distorto non già dai suoi amministratori, quanto da molti dei suoi utenti. I produttori e i registi. Non tutti, ovviamente, ci mancherebbe. Ma molti, troppi. I quali hanno trovato nei fondi stanziati per il cinema di qualità un modo di fare cinema sostanzialmente gratuito. Già, perché per almeno un paio di decenni il teorema di molti autori «da articolo ventotto» (ai tempi era diventato quasi un modo di dire per indicare un regista di poco o nessun successo), ma soprattutto dei relativi produttori, era il seguente: «Se va male, non si restituisce il prestito e lo Stato si tiene il film. Poco male. Se il film va bene, invece, il prestito lo restituisco e mi tengo i soldi degli incassi». Tutti i rischi, insomma, li correva soltanto lo Stato. Una cuccagna. A vantaggio di una sperimentalità autorale spesso velleitaria, incomunicabile, a volte inguardabile. Con l'inevitabile finale del rifiuto spesso totale da parte del pubblico. Moltissimi film prodotti con l'art.28, infatti, non sono mai ne

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