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Quei «poteri forti» contro Mussolini

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Si resta stupefatti a leggere il testo della lettera inviata da Mussolini al prefetto di Torino, il 5 luglio 1927, perché ne rendesse edotto Giovanni Agnelli, il fondatore della Fiat. «Ad evitare il grave e assurdo pericolo - scriveva il Capo del Governo - che la Fiat finisca per considerarsi una istituzione intangibile e sacra allo Stato alla pari della Dinastia, della Chiesa, del Regime e avanzi continue pretese, bisogna considerare la Fiat come una intrapresa privata simile a migliaia di altre, al destino delle quali lo Stato può anche disinteressarsi. La Fiat ha molti operai sta bene, ma questo non le dà titolo a speciali privilegi. Il numero di operai passibili di licenziamento può essere un elemento di considerazione benevola nel caso che la Fiat sia in linea col Regime: altrimenti i progettati licenziamenti hanno l'aria di un ricatto che il Governo fascista non subirà mai, anche se la Fiat chiudesse - domani - tutte le sue officine. Io credo che un atteggiamento di perfetta indifferenza, di fronte alla condotta e alle vicende della Fiat, sia quello da seguire. Il problema della disoccupazione sarà affrontato dal Regime con i suoi mezzi al momento opportuno. La Fiat faccia il suo gioco. Il Regime fa il suo. Questa specie di ossessione - a fondo ricattatorio - su quello che fa o non fa, farà o non farà, l'impresa privata della Fiat, deve finire». Nella dura lettera di Mussolini, è ravvisabile, in controluce, quello che, oggigiorno, è quasi un luogo comune: quando fa profitto, guadagna la Fiat; quando invece le cose vanno male, deve pagare la comunità nazionale, con la cassa integrazione richiesta per gli operai «in esubero». In realtà, Mussolini non poteva spingere la polemica oltre il segno, per garantire il livello occupazionale; mentre il senatore Giovanni Agnelli si fece perdonare, ricevendo il Duce al cospetto di 30mila operai, in orbace e pronunciando un discorso di benvenuto in perfetto stile littorio. Non andavano meglio le cose col mondo della finanza. Raffaele Mattioli, amministratore delegato della Banca Commerciale, preparava per il «dopo» i vari Leo Valiani, Ugo La Malfa, Giovanni Malagodi ed Enrico Cuccia, che incontrava tranquillamente a Lisbona, nel 1942, i Colleghi americani e inglesi, di Paesi cioè con i quali l'Italia era in guerra. Tirate come quella del 1927 non mancarono anche in seguito, da parte di Mussolini, il quale velleitariamente affermava: «Nessuno pensi che la tessera annonaria sarà abolita alla fine della guerra. Essa durerà finché esisterò io. Così i vari Agnelli e Donegani (presidente della Montecatini) mangeranno come il loro ultimo operaio». Gli industriali fecero di testa loro quasi sempre, realizzando, in regime autarchico, profitti che è difficile quantificare. Finì certamente nelle loro tasche una fetta consistente degli stanziamenti militari, con relative commesse. Si pensi che nel quinquennio 1935-1940 furono stanziati 84 miliardi 125 milioni (somma enorme per quei tempi, pur mettendo nel conto gli impegni in Africa Orientale e in Spagna), pari al 37,4 per cento delle spese statali e al 13,4 per cento del reddito nazionale. La storia completa della scadente produzione militare, non è stata mai fatta. Basti dire che ancora nel 1943 - mentre i cieli d'Europa erano solcati dai primi aerei a reazione sperimentali - dalle catene di montaggio uscivano i biplani Fiat CR.42 e i nostri piloti affermavano amaramente (perché dovevano rischiare la pelle) che i motori si misuravano non già in «cavalli» bensì... in «somari». «Casse da morto rotolanti»: così vennero chiamati dagli equipaggi i carri armati della Fiat-Ansaldo, poco protetti, suscettibili d

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