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Hoffman da Oscar nella contorta psicologia dello scrittore

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,Stati Uniti, 2005 UN FILM per raccontare la genesi di un libro, «A sangue freddo» di Truman Capote, diventato a sua volta un film (di Richards Brooks). L'impresa se l'è assunta un esordiente americano, Bennett Miller, noto finora per documentari e spot pubblicitari, facendola guidare da un'opera ponderosa sulla vita di Capote firmata da Gerald Clarkc, apprezzato negli Stati Uniti per molte biografie di celebrità. Al centro del film, perciò, sulla scorta del testo di Clarke, il personaggio eccentrico, stravagante, spesso cinico ma non di rado anche geniale di Truman Capote che a New York, negli anni Sessanta, inaugurò un nuovo genere letterario, con quel libro, «A sangue freddo», da lui stesso definito «non-fiction novel» e cioè «romanzo-verità». L'occasione gliel'aveva fornita, nel 1959, la strage effettuata nel Kansas di un'intera famiglia ad opera di due malviventi a scopo di rapina. Capote, che allora scriveva per il «New Yorker», una volta assicurati alla giustizia gli assassini, aveva avuto l'idea non solo si seguirne il processo, che si sarebbe concluso con delle condanne a morte, ma di seguire da vicino la vita in carcere dei due assassini approfondendo la psicologia soprattutto di uno il cui passato gli ricordava un po' il proprio, immedesimandosi a tal segno nei suoi casi da averne da quel momento la vita quasi distrutta anche se il prezzo sarebbe stato quel romanzo destinato a lasciare un segno nella letteratura americana di quegli anni. Miller, sulla base del libro di Clarke e con il supporto di una sceneggiatura di Dan Futterman, un altro esordiente, ha mirato soprattutto a rendere evidente il confronto fra Capote e uno degli assassini, al quale, forse, date le sue inclinazioni omosessuali, si era eccessivamente legato, dando contemporaneamente rilievo a quelle sue contraddizioni che, se per un verso, lo inducevano a favorire l'assoluzione dei due, per un altro gli facevano attendere la loro esecuzione per poter dare una conclusione al libro che stava pensando. Tutto sfumato, però, senza mai increspature né note alte, nemmeno nella ricostruzione della strage. Con l'accento solo sui caratteri, riuscendo a darci, di quello di Capote, una definizione studiata in ogni sfaccettatura, con il suo ambiente attorno sempre ben precisato (e allora molto colorito), e arrivando quasi a tradurre in immagini (quasi sempre soffocanti e buie) il cammino che gli avrebbe consentito di realizzare con quei fatti un'operazione letteraria. Favorisce al massimo questo risultato la presenza, nei panni del protagonista, di Philip Seymour Hoffman, un attore noto finora per parti di fianco che qui riesce addirittura a far rivivere la figura che incarna: con i suoi gesti affettati, la sua voce fastidiosamente infantile (perfettamente doppiata), la sua costante mistura fra genio e sregolatezza. Una interpretazione da premio.

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