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«Arnoldo Mondadori mi vide piangere e la mia carriera decollò» Da Fellini alla Fallaci, i grandi incontri. Fino a quello con Marilyn

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In duecentoventi pagine racconto le scorribande di un giovane povero che gira il mondo senza un piano prestabilito, in balia della corrente. Ero un vascello tutto vele e niente timone. Ma siccome ci dev'essere un santo per i vagabondi e i picari, al banchetto della vita non m'hanno lesinato i cibi buoni. Grazie al giornalismo ho potuto compiere quel "grand tour" che due secoli fa si concedevano soltanto i rampolli nati da magnanimi lombi. Benché fossi nato povero, la fortuna mi ha concesso di cenare negli alberghi a cinque stelle con le stelle del cinema e della letteratura. Questo mio libro - un "arco di vita spericolata" - ha un solo scopo: raccontare il vero, non gonfiare i muscoli dei personaggi che vi appaiono, né tanto meno i miei. In qualche caso, sono stato cinico o spudorato. Come suggeriva Edgar Allan Poe, ho grattato il fondo del barile fino a quando non mi sono sanguinate le unghie. Alcuni dei protagonisti che illuminano il palcoscenico della mia vita sono morti. Da Faulkner che mi regala la sua pipa, a Marilyn Monroe che con voce tremante mi chiede di leggere una sua poesia. In qualche momento, sono stato crudele con loro; ma non volevo mentire, non mi interessava scrivere un libro di gossip al rosolio. Ho sicuramente avuto una fortuna al di sopra dei miei meriti. Ho diretto una grande rivista, "Panorama", co-prodotta da Mondadori e da Time-magazine, ma non sono sicuro che meritassi tanta fiducia. È stato, ancora una volta, il caso: prima di scegliermi per l'incarico, il vecchio Arnoldo Mondadori mi invitò a cena all'Hotel Savoy, sul Tamigi. A un certo punto, preso da un attacco di malinconia, l'editore si mise a raccontare episodi della sua povera e travagliata infanzia. Rievocava i giorni nebbiosi e gelidi passati a Ostiglia, la città natale, e il suo primo lavoro di venditore ambulante. Smerciava lumini e lucido da scarpe. Aveva dodici-tredici anni. A un certo punto Mondadori notò che avevo gli occhi lucidi e lacrimavo. Poiché portava grosse lenti da miope, non s'accorse che le mie lacrime non erano di commozione, ma l'effetto di uno spaventoso cimurro albionico, che non ha pari sulla Terra. Dopo che ci fummo accomiatati, pare che il grande vecchio si sia rivolto alla moglie Andreina con queste parole: «Non so se quel giovine è la persona giusta al posto giusto. Però, che cuore sensibile!». Ai giovani che scrivono sulla mia cassetta elettronica, chiedendo quale sia la buona carta per una carriera di narratore, rispondo che le carte sono due: 1) incontrare dei buoni maestri; 2) saltare sul vagone della fortuna. Avevo diciott'anni, studente universitario, ma non sapevo a chi inviare un racconto satirico intitolato "I pugili". Lo mandai casualmente a un foglio di sofisticata fattura, "Il Marc'Aurelio", cui collaboravano i più brillanti scrittori che poi fecero il grande cinema: Fellini, Steno, Marcello Marchesi, Longanesi, Scola. La settimana dopo, per qualche favorevole congiunzione astrale, il mio racconto andava in pagina, con una illustrazione del famoso Barbara. Era quasi fatta. Poco dopo entravo in un gruppo che comprendeva le "grandi firme" di allora: Malaparte, Longanesi, Ansaldo, Soldati, Emilio Cecchi. Sono stati loro a insegnarmi il segreto del mestiere: che consiste nel bulinare la prosa con la pazienza di un orafo. Giuseppe Prezzolini mi insegnò che il talento del cantastorie sta tutto nell' "accozzar le parole"; e che il segreto è saper togliere, buttare gli aggettivi, non aggiungerne. Così i personaggi di questo romanzo-verità scorrono sulla pellicola della memoria così come sono, senza cipria né trucco: da Raf Vallone a Michèle Morgan, da Prezzolini a Oriana Fallaci, da Arthur Miller a Eleonora Roosevelt. Ma il perno dell'avventura è naturalmente lei, Marilyn Monroe. La donna più calamitica che abbia mai incontrato: nel senso che calamitava gli uomini, ma nello stesso tempo era calamitosa, rovinosa con se stessa. Orfana

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