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La rivoluzione borghese del «generone»

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Saggio di Mario Sanfilippo sulla «middle class» romana che sostituì l'aristocrazia papalina

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Il suo nome spicca sulla copertina rossa e nera di un libro dall'aria molto seria, come il sottostante titolo conferma: «Il "generone" nella società romana dei secoli XVIII-XX» (Edilazio, 213 pagine, 18 euro). L'inatteso "retrouvailles" mi emoziona lì per lì e, anche, un po' mi commuove. Capirete: imbattersi in un libro attraente, scritto per giunta da un vecchio e caro amico, che s'era perso per strada, non si sa come né perché, come troppo spesso accade in questa nostra vita sciaprinata, ebbene, costituisce un evento toccante. Almeno per me. Prendo su il volume, bello, liscio, corposo: ne scorro le primissime pagine, laddove l'autore spiega come e perché si sia indotto, lui docente di Storia Medievale, a scrivere un trattato sul "generone", un fenomeno sociale esclusivamente romano. Per poi raccontare come l'idea lo pungolasse fin dai lontani anni universitari, e riferire di un incontro con Pietro Paolo Trompeo, suo insegnante di letteratura francese. Questi per primo gli pone la domanda: «Perché lei, un medievista in erba, s'interessa di questo ceto ottocentesco?». «Pura curiosità romanesca, professore», è la franca, succinta risposta del giovane. Giusto, la "curiosità romanesca" di Sanfilippo. Io la conosco bene, e l'apprezzo, fin dai tempi del Messaggero in cui, a me, inviato speciale, accadeva, all'occorrenza, di doverne coordinare, a fianco di Ruggero Guarini, la terza pagina. Di cui Mario Sanfilippo era assiduo e stimato collaboratore. Puntualissimo, a ogni weekend, Mario piombava in via del Tritone, col pezzo di cose romane in tasca. Va detto che il resto della settimana lo trascorreva all'università di Trieste, dove per l'appunto insegnava storia medievale. Così, ricordando i bei dì che furono, ho intrapreso la lettura del "generone" sanfilippiano. Ora, questo mio articolo - meglio spiegarsi subito - non pretende d'essere una recensione. Altri potrà sbrigare la faccenda, con tutti i crismi del genere, meglio di me. L'ho detto: imbattermi nel libro sul "generone" è stato ritrovare un amico. Ed è in questi termini che ora voglio parlarne. Giusto come si fa tra amici, in casi del genere, molto informalmente. Ecco, esprimo la prima considerazione che questo libro mi ha suggerito. Sanfilippo è uno studioso serio e come tale mal sopporta l'improprio uso delle parole. E del termine "generone", tutto nostro, come la satira, in ogni tempo, anche recentemente, si è fatto strame. Con l'acribia che lo contraddistingue, diciamo la meticolosità, Mario si è messo al lavoro. Ha richiamato tutta la sua tigna romanesca, è tornato a rintanarsi nelle biblioteche, ha letto e riletto i libri più importanti, ascoltato e tampinato eredi, epigoni et similia. Confessa di aver dovuto omettere alcuni archivi, ma, si sa, gli anni pesicchiano. Comunque sia: il lavoro di ricerca è stato serissimo, assolutamente scientifico. "Generone" e "generetto", come espressioni della composita borghesia romana degli ultimi trecento anni, ci sono ora dinanzi. Ben nitidi. Evidenti. Presentando questo suo importante lavoro, Sanfilippo, con civetteria intellettuale, lo definisce "libretto". Altro che libretto! È un'approfondita, appassionata ricerca sulla realtà socio-economica romana tra il Settecento e i giorni nostri. Che consente di capire le dinamiche economiche e sociali dell'Urbe in questi tre ultimi secoli. Insomma, prende per mano il lettore e lo induce a osservare e intendere una realtà storica, anzi, storicistica, in tutti i suoi elementi portanti. Mica facile, sapete, perché, arrivati all'ultima pagina, ci si accorge di aver appreso sul conto di Roma tante cose illuminanti, ma ci si convince pure che il giudizio definitivo resta sempre quello di Silvio Negro: «Roma? Non basta una vita per capirla». Ma non dobbiamo per questo scoraggiarci. Del resto, Sanfilippo, presentandoci questo suo "generone" riveduto e corretto, ne fa un protagonista. E anche un motore. Un ceto di grossi borghesi intr

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