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Dei ed eroi ecco l'Iliade himalayana

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A duemila metri s'addomestica la natura ed ecco la geometria dei campi coltivati sulle alte colline della valle dell'Hongu. Sullo sfondo le vette innevate, inarrivabili paradisi. Nepal orientale, un angolo remoto di questa terra dove le arrampicate fino agli ottomila e oltre, con gli sherpa addomesticati dalle compagnie turistiche, sono ormai troppo frequenti. Lassù, sull'Everest, la «Piramide» italiana continua a disegnare scientificamente la vetta più alta del mondo, così come insegnò mezzo secolo fa l'intransigente Ardito Desio. Ma nelle valli profonde, col clima che s'addolcisce, la vita scorre lenta. Da secoli. C'è un popolo di agricoltori. Si chiamano Kulunge Rai, una volta erano fieri cacciatori, e la dice lunga il loro antico appellativo «uomini-tigre». Sette-otto villaggi di 1500 abitanti ciascuno. Il Comitato italiano del Cnr, con Agostino Da Polenza che ne è presidente, lassù, sulla Piramide, studia non solo le vette, ma anche quelle valli. Così ha chiesto a Martino Nicoletti, antropologo, di incontrare i Kulunge Rai. Una indagine corredata dalle fotografie di Fabrizio Gaggini, che ora è diventata un libro, «Riddum», edito da Castelvecchi. Nel quale l'antropologo traduce la cosmogonia dei Kulunghe Rai, popolata di progenitori in forma di serpente, di fanciulle ingravidate da gocce d'acqua, di tordi indovini, giù giù per la discendenza dei Kulunge, e fino allo sciamano che ora racconta il mito, innervandolo nel presente. «Incontrai per la prima volta i Kulunge Rai nel '95 - racconta Nicoletti - Quell'anno e il successivo restai nel villaggio di Gudel. La gente che organizza tutta la vita attorno all'agricoltura. L'intera famiglia lavora nei campi e non potrebbe essere diversamente: il livello economico è appena al di sopra della sopravvivenza, la denutrizione diffusissima. Arano, seminano, raccolgono, curano il pascolo. Senza distinzione tra uomo e donna. È un popolo che ha avuto scarni contatti con gli occidentali. Solo da poco lo toccano i flussi turistici. E la contaminazione in questo caso può considerarsi benvenuta, perché porta un po' di prosperità». Tanta operosità, strappare il sostentamento a morsi, non ha appiattito l'esistenza dei Kulunge in una dimensione solo utilitaristica. «Al contrario - spiega Nicoletti - riti e miti sono l'interfaccia di questo popolo. Al punto che ha mantenuto una lingua arcaica, tramandata oralmente. Quella si deve usare durante le cerimonie religiose. Ma solo i sacerdoti la conoscono». Difficile far breccia in questa comunità, riunita in villaggi che si possono raggiungere dopo due o tre giorni di viaggio a piedi? «Mi ha aiutato la persona con maggior carisma nel gruppo, lo sciamano. All'inizio era diffidente. Non sapeva cosa fosse un antropologo, credeva fossi una spia del governo che perseguita fedeli eterodossi. O un missionario, un protestante statunitense piombato lì con lo scopo di far proseliti. Piano piano ha conquistato la fiducia: mi sono fermato parecchi mesi, ho imparato la loro lingua, ho condiviso la vita nelle capanne, senza telefono, senza elettricità. Ho mangiato come tutti riso, polenta, miglio. Dello sciamano, Sancha Prasad Rai, ho ascoltato la parola sacra. Sono diventato suo amico. È morto, ma tale sono rimasto per i suoi familiari. Ancora oggi, quando torno, fanno festa, stappano la birra fermentata in casa, beviamo insieme. "È tornato majesh", dicono a tutti, rispolverando il nomignolo che mi hanno affibbiato. Significa quello che infiamma, che fa ridere. Perché io, goffo occidentale, ero al centro di continue gaffes». Che cosa le hanno dato i Kulunge Rai? «Il senso di un impegno da svolgere. La lingua arcaica del riddum, per la narrazione epica delle loro origini, sta scomparendo, gli adulti la comprendono appena, i giovani masticano meglio l'inglese. La trasmissione orale è come un fiume che si va essiccando. E se scompaiono mito e storia, un popolo perde l'identità culturale. Trascrivendo per la prima volta il riddum ho sì compiuto un'operazione a tavolino, artificiale, ma ho

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