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Berta non fila più. Canta Rossini ch'è una meraviglia

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Non ci siamo limitati a sorridere, massima espressione della contentezza dell'uomo dismagato, od a rider sotto i baffi, come si confà alla togata gravità d'un critico musicale, ma, a tratti, proprio cosí: ih! ih! ih!, ih! ih! ih!: come a dir sganasciatissimamente. Ch'è cosa rara, rarissima, sempre, ma in specie ai giorni nostri, e, sovr'a tutto, nel campo musicale, ove, sarà magari la screanzata mancanza di fondi, sarà oppure un disavventurato infiacchimento dell'intelligenza interpretativa, in ogni caso qua e là fa oramai capoccetta una diffusa noia del pubblico: militarmente arrovesciato sulle potrone, irrigidito in istato preronfoso. Il sublime «Barbiere» già sollazza di per sé stesso, alla lettura della partitura nel suo rutilante vortichío musicale; e però, quando ci si mette qualcuno di buzzo buono che lo sappia insapidire al desco dell'ascolto, allora il tuo sollazzo pare pascerti l'anima quasi ad un banchetto di Gargantua e Pantagruel. Questo qualcheduno è nella fattispecie Gian Luigi Gelmetti, direttore d'orchestra insieme e regista, che or sono due anni recò in scena il capolavoro del Pesarese esagerando in gags, frizzi e lazzi. Stavolta ha colto la giusta misura, riducendo, rifinendo, rastremando le ridevoli trouvailles, sulla base d'un'esecuzione strumentale e vocale di friccicosa accattivanza. Scorre snello e sinuoso lo spettacolo, traducendo le geniali geometrie sonore - vertice della civiltà operistica italiana - in geometrie sceniche: in vero, tanto accade alla translucida congrega delle biscrome celerrime, altrettanto dinanzi al nostro guardo lieto. Son dette sinestesíe. Gelmetti, si tocca con mano, ci piace ingolfarsi in Rossini: che fa per lui, per la sua sensibilità in chiave epicurea, per il suo erotismo estetico. Tiene in mano il gusto in luogo della bacchetta, e non si lascia scappare l'accidente che gli consenta di mostrare alla vibratile platea non solo quant'è bello questo autore ma pure quanto può esser bello lui, dícasi il Gianluigi, quando dirige siffatta musica catartica, che lo vellica e sbrilluccica come un furetto. Il plotoncino dei cantanti è da lui oliato a pennello. Attrae piú di tutti il tenore Raul Giménez nei panni del Conte d'Almaviva in virtú dell'elettezza d'ugola non disgiunta dalla naturale aristocraticità di portamento: esemplare. Ma ci garbano altresí il ticcoso Don Bartolo di Bruno Taddia, il discotèchico Figaro di Massimiliano Gagliardo, la creanzata Rosina della scuravoce Laura Polverelli, il commendatoresco Basilio di Natale De Caroli. E, dulcis dulcissima in fundo, la Berta di Laura Cherici: che quando si slaccia, per súbita furia d'eros, i bottoncini del nero corpetto ecco fiorire a poco a poco, eppoi erompere quale formidabil Vesevo, la vastità magnanima d'un petto donde sgorga e si pastura, beato lui, un canto rapinoso quant'altri mai mai. Al tacito Leo Gullotta il còmpito di salare il tutto con la sua navigata e lunare vis comica, nel mentre, tutt'intorno, la garrula invasione delle farfalliche coppie del Corpo di Ballo dell'Opera raggiunge le poltrone elettrizzate e ne arricciola le appagate risa - chez le Moulin Rouge de Paris le cancan n'etais pas si charmant. Applausi a josa: a non finire. W Gioachino!

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