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Tra lingua e federalismo non c'è conflitto

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Paradossalmente, quasi nello stesso giorno, è stata finalmente ed ufficialmente approvata anche la norma che riconosce l'Inno di Mameli quale inno ufficiale della Repubblica italiana. Purtroppo manca ancora l'articolo che fa della lingua italiana anche la lingua nazionale, ma non disperiamo: verrà tempo per la politica di riconoscere in Dante l'elemento unificante di questo nostro straordinario ed originale paese. Nel frattempo si stanno moltiplicando iniziative di ogni genere per divulgare l'opera del grande poeta fiorentino, quasi si volesse esorcizzare con ciò la paura di vedere frantumata l'unità letteraria e l'identità culturale italiana conquistata con fatica dopo secoli di lotte fratricide e guerre di liberazione dall'invasore straniero. Dunque si parlerà lombardo o calabrese? Scriveremo in veneto o canteremo in romanesco? I dialetti diverranno lingue regionali o rimarranno solo inflessioni locali? In realtà, ritengo che al momento non cambierà pressoché nulla. Semmai il problema di quella che sarà la futura lingua italiana dipenderà molto da ciò che noi italiani sapremo e potremo fare per proseguire nel cammino intrapreso, rafforzando lo studio delle discipline umanistiche, mantenendo alto il livello di preparazione dei nostri insegnanti, dando opportunità concrete ai giovani e brillanti ricercatori di dimostrare con il loro entusiasmo il progredire degli studi. Lingua e dialetto non c'entrano nulla con la diatriba aperta tra l'amministrazione del governo federale e quello dello Stato centrale e sarebbe oltremodo pericoloso confondere le due cose. L'italiano, la nostra lingua, venne unificata già 700 anni fa proprio da Dante allorché scelse all'aulico latino, la vulgata popolare, ossia quella parlata diffusa ed usata quotidianamente dal popolo per discutere, acquistare, amare, convincere, corrompere, litigare. Portare dall'Infermo al cospetto di Dio un personaggio che parlasse italiano e non greco e latino, fu la vera rivoluzione della nostra storia nazionale e di quella dell'intera umanità in quanto, sarà bene ricordare, che Dante è un'icona universale valida ancor oggi in Iran quanto in Argentina, in Cina quanto in Australia. Nella patria delle cento città e dei mille campanili, nella terra che dopo Cesare nessun altro è mai riuscito a conquistare interamente, la lingua fu l'unico elemento davvero unificante. Mente gli Stati centrali di tutta Europa, ad iniziare dalla Francia fino all'intramontabile sole dell'Impero di Spagna avevano già dalla fine del '500 sistemato i loro affari interni e consolidato gran parte dei confini, dato un'amministrazione solida alla Stato e fortificato la loro struttura militare, l'Italia viveva la più grande crisi politica interna. Machiavelli e il suo «Principe», Guicciardini con i suoi «Pensieri» configurarono uno stato politico che divenne ancora più complesso allorché le truppe di Carlo VIII a Firenze aprirono quella ferita riprodotta nel 1527 dai Lanzichenecchi a Roma e successivamente tante altre volte ancora fino alla stagione dell'orgoglio ottocentesco risorgimentale. La storia d'Italia è tutto un inseguimento dietro la propria lingua e la propria cultura che da sempre hanno preceduto il disegno politico. I ritardi della nostra classe dirigente sono essenzialmente dei ritardi culturali, degli impacci intellettuali o, se si vuole, più elegantemente dei brogli dialettici non sempre risolti. Per questo motivo ritengo che la nostra lingua non corra oggi più pericoli di quanti ne corresse duecento o trecento anni fa, quando un veneto e un siciliano davvero facevano difficoltà a comprendersi. Credo invece che ciò che è riuscito ad unificare il televisore (dopo Dante il secondo grande divulgatore della lingua parlata italiana) sarà difficilmente divisibile dalla nuova carta costituzionale e che continueremo a migliorare la nostra offerta scie

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