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Paura e dubbi dei guerrieri kamikaze

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COSA SPINGE un kamikaze ad assassinare dandosi nello stesso tempo la morte? Questo aberrante processo psicologico ce lo illustra un regista palestinese noto ai festival, Hany Abu-Assad, finanziato però anche da europei e israeliani. Comincia in un campo profughi nei dintorni di Nabluz dove ci presenta due amici che, avendo dichiarato a una loro organizzazione di essere pronti per azioni di guerra, vengono un giorno scelti per un'impresa terroristica a Tel Aviv. Prima i rituali della preparazione: un testamento registrato da una videocamera con cui espongono il loro credo e salutano un'ultima volta i parenti, poi la «vestizione», con le bombe nascoste sotto gli abiti, quindi la partenza per l'impresa, minuziosamente organizzata. Entrambi sono decisi, sanno quello che li aspetta ma credono, con quello, di meritarsi il Paradiso («verranno due angeli e vi porteranno di fronte a Dio», dice loro uno dei capi), però, all'improvviso, uno dei due si tira indietro, scosso da una non prevista paura. L'altro, per amicizia e perché non lo si consideri un traditore, si dà a inseguirlo anche se quella spedizione ormai è stata annullata. Quando lo troverà tuttavia lo vedrà riprendersi (aveva avuto un padre collaborazionista e vuole riscattare la famiglia) e mentre lui torna indietro non potrà impedirgli di andare incontro alla morte: di altri e sua. Un fanatismo esposto con accenti quotidiani, opponendovi, grazie alla figlia di un eroe della resistenza, la voce inascoltata della ragione, con l'affermazione che quella guerra non si vince con gli attentati. Uno studio da vicino delle situazioni e dei caratteri, analizzando prima l'accettazione della morte, poi, con il dubbio, la paura che scuote e che ferma. Con l'analisi attenta che degli atteggiamenti dell'altro kamikaze, prima pronto a uccidere poi, a sua volta, indotto a tornare indietro. Attorno, una cornice dal vero, realistica, in cui trova spazi asciutti non solo la cronaca di quell'organizzazione, con modi che quasi si trasformano in riti, ma le motivazioni dei singoli, anche quelle accecate da folli pregiudizi. Per il cinema palestinese una documentazione insolita condotta però, pur con umanità comprensiva, senza condividere mai quelle imprese. Non a caso, così, lo scorso inverno, il film, al Festival di Berlino, si è visto premiare da Amnesty International. Gli interpreti, tutti palestinesi, vengono dal teatro, ma son riusciti a darsi anche al cinema le dimensioni giuste.

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