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I tormenti dello scrittore: la pazzia della moglie e l'amore per la Abba

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sapete che non so scrivere lettere». Così Luigi Pirandello ai figli Fausto, Stefano e Lietta. Eppure si nutre in grande parte di lettere il suo rapporto con la famiglia. Come testimonia l'epistolario tra Pirandello e Stefano che vede ora la luce, curato da Sarah Zappulla Muscarà per l'Associazione culturale La Cantinella di Catania (374 pagg., 25 euro). È un ritratto di famiglia inedito, questo scambio di amorevoli missive. Pirandello, sempre in viaggio, lontano da casa, amministra, dispone, consiglia, accarezza. Ma scrivendo ai figli, più che condividendo il medesimo tetto. Del resto all'amico Ugo Ojetti aveva confidato: «La vita o si vive o si scrive. Io non l'ho vissuta, se non scrivendola». L'epistolario, che insegue il drammaturgo dal 1919 alla morte, nel 1936, per polmonite, è denso proprio perché quella di Pirandello è esistenza da fuggiasco. In tutta Italia e nel mondo - Berlino, Parigi, Londra, Stoccolma nei mesi del Nobel, gli Usa - per firmare contratti, curare messinscene, cercare guadagni per mandare avanti la baracca. Fuggiasco per sconforto. «Non è singolare che atroce sia l'aggettivo che più frequentemente ricorre in questi scritti», osserva la Muscarà. Stefano, Stenù come lo chiama il padre, lo consola: «Perché devi avere, Papà mio, questo senso atroce della tua vita?». Dei tre figli è quello che più gli sta vicino, che ne cura gli interessi. Una sorta di alter ego per l'attitudine alla scrittura, per esser diventato romanziere e drammaturgo. Ed è quello più segnato dal raffronto col padre, tanto da adottare lo pseudonimo di Stefano Landi. Ma nella trama degli scambi epistolari si svelano i ruoli veri dei cinque personaggi Pirandello. Un plot ossessivo che s'incentra sulla pazzia della moglie, Antonietta Portolano. Follia nata dall'attaccamento morboso a Pirandello. Stefano firmerà un romanzo, «La casa a due piani» che ritrae proprio una coppia di coniugi vogliosi di isolarsi in un'ala dell'abitazione tutta per loro, lasciando perplessi i figli. «La pazzia di mia moglie sono io - scrive ancora Luigi ad Ojetti - io, io che ho sempre vissuto per la mia famiglia, e per il mio lavoro, esiliato del tutto dal consorzio umano, per non dare a lei, alla sua pazzia, il minimo pretesto d'adombrarsi». Parole con un'eco nella finzione di «Così è se vi pare». Ecco la verità della signora Frola, ecco quella del signor Ponza. Antonietta s'ingelosisce della figlia Lietta, e questa tenta il suicidio. Antonietta dev'essere rinchiusa in casa di cura. È Stefano a occuparsene. «Restammo, dopo il tradimento con cui si potè condurla e lasciarla in quella prigione, come una famiglia devastata dal lutto e dalla colpa». Fausto trova la sua strada, a Parigi, e diventerà importante pittore. Lietta si sposa e se ne va in Cile. Non senza una frattura con il padre, per la dote rimandata di anni, 250 mila lire che Luigi può versarle nel 1929, dopo essere riuscito a vendere il villino di via Panvinio, sulla Nomentana, a Roma. E il resto del ricavo va ai due maschi. Luigi inventa sotterfugi per non andare a trovare Antonietta. Prega Stefano di dirle che è in viaggio. Ma continuamente raccomanda ai figli di far visita alla madre. «Mi ha chiesto un gocciolino di marsala di nascosto e gliel'ho dato», racconta una volta Stenù al padre. Altre ancora le spine di Luigi. Il cinema che trova difficile utilizzare le storie di Pirandello. Stefano si cura di ridurre romanzi e drammi in copioni. E scrive «Acciaio», voluto da Mussolini per celebrare gli altiforni di Terni. «Il soggetto lo scrivi tu - ordina Pirandello a Stefano - Io lo firmo e ti passerò il compenso che mi daranno». Niente da fare per «Sei personaggi in cerca d'autore». «Non vedere un affare nelle mie cinemelografie è proprio da stupidi», commenta amaro l'autore. Stefano gli suggerisce allora di produrre egli stesso i film, col sostegno di finanziatori stranieri. «Fino al giorno che coi nostri mezzi, qui in Italia, potessimo permetterci il lusso di buttar fuori il film dei Sei personaggi», suggerisce. Piran

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