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Addio ad Afeltra, il «rabdomante» del giornalismo italiano

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Scoprire uno scrittore o un giornalista rappresenta per lui ciò che per Cristoforo Colombo dovette rappresentare l'America e per Fleming la penicillina". Ieri questo "oscuro e grande impresario di cervelli (definizione montanelliana) ci ha lasciati. Aveva compiuto novant'anni l'11 marzo, ma non aveva ancora rinunciato alla vocazione di rabdomante. Si guardava intorno e annusava, sperando di scoprire nuovi talenti. La caccia non era più ricca di prede come mezzo secolo fa: perché di talenti ce ne sono in giro molti meno. Era nato ad Amalfi, e i suoi amici raccontavano (con qualche approssimazione: ma era proprio lui, Gaetanino, a sostenere che "il giornalismo è fatto di due cose: di inesattezze e di rettifiche") che il viaggio più lungo della sua vita sedentaria l'avesse intrapreso quando si trasferì da Amalfi a Milano, per entrare prima all'Ambrosiano, e poi al Corriere della Sera (nel 1942): ne sarebbe uscito solo per otto anni (dal 1972 al 1980) per dirigere il Giorno, per poi tornare "a casa", dove è rimasto fino all'ultimo (attualmente era consigliere del gruppo Rcs, e s'affacciava nelle pagine della Cultura, firmando elzeviri). Gaetanino era quello che i giornalisti definiscono un "culo di pietra". Uomo di macchina, per decenni redattore capo e vicedirettore del più importante quotidiano italiano. Non si muoveva dalla scrivania se non per ragioni fisiologiche (mangiare e dormire incluso). Ma conosceva il mondo meglio degli inviati del suo giornale: ai quali, infatti, dettava al telefono gli articoli che loro avrebbero dovuto scrivere. Molti suoi colleghi avevano maturato la convinzione che Gaetanino non sapesse scrivere, o avesse un qualche blocco psicologico di fronte al foglio bianco: non si spiegava altrimenti il fatto che lui dettasse agli altri quel che avrebbe potuto scrivere, e firmare, per conto proprio. Ma quando - negli anni Ottanta - si decise a raccontare in prima persona, nelle librerie apparvero parecchi libri ("Corriere primo amore", Missiroli e i suoi tempi", "Famosi a modo loro", "Desiderare la donna d'altri", "Com'era bello nascere nel lettone", Milano amore mio") che hanno dimostrato che lui, Afeltra, non solo era in grado di maneggiare la grammatica e la sintassi, ma aveva diritto al titolo di "scrittore" (che vale molto più di quello di "giornalista"). I giovani possono imparare qualcosa, leggendo quei libri. I vecchi (che l'hanno conosciuto, frequentato e "sopportato") ricordano quando pronunciava una frase rimasta uno slogan: "faciteme nu piezzo cazzuto". Milanese da sessant'anni, usava ancora il dialetto, che l'aiutava ad essere autorevole, ma con la burbera bonomia dei napoletani. Il Richelieu del Corriere, ma - a differenza del cardinale - non aveva bisogno delle guardie del corpo: non c'era un giornalista che non lo stimasse profondamente, e non pendesse dalle sue labbra.

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