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Rollins suona per esorcizzare l'11 settembre

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Il jazzista pubblica «Without a Song» 4 anni dopo l'attentato

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Una data in cui, anche quest'anno, si ricorderà altro. Ma la scelta del popolare "saxophone colossus" non è dettata da ragioni promozionali, quanto da un episodio che lo ha toccato molto da vicino. «Il materiale del mio nuovo disco - afferma Rollins, che compirà 75 anni il prossimo 7 settembre - proviene da un concerto tenuto a Boston il 14 settembre 2001, ovvero tre giorni dopo l'attacco dei terroristi. L'idea era quella di cancellare il concerto, ma mia moglie Lucille mi incoraggiò. Ho perduto mia moglie lo scorso novembre e soltanto ora mi rendo conto di quanto fosse giusto quel suo consiglio». Il sassofonista fa parte del grande numero di evacuati dal disastro del World Trade Center, costretto a fuggire, quaranta piani a piedi fra le macerie, all'inizio con poche speranze di rientrare vivo a casa. «Without a Song», questo il titolo dell'album, presenta ben 73 minuti colti al volo in quel concerto di Boston, che per l'esattezza durò 2 ore e 40 minuti, come è tradizione per il torrenziale sassofonista e fra i brani, oltre alla title-track (basata sulla versione di Paul Robeson), figura il calypso «Global Warming». Indipendente, orgogliosissimo, addirittura fanatico del suo stesso perfezionismo, Rollins ha lasciato intendere che molto probabilmente «Without a Song», suo ventiduesimo (e quarto dal vivo) album per la Milestone, probabilmente sarà l'ultimo della sua prodigiosa carriera. Il jazz negli Stati Uniti soffre particolarmente della politica scaturita dai nuovi assetti discografici - la stessa Milestone, storica etichetta, è ormai sotto l'ombrello del Concord Music Group - e Rollins non sembra disposto a lavorare sotto determinate indicazioni. È un musicista che si riconosce nella fedeltà ai valori di fondo, nella continuità della tradizione jazzistica afro-americana e in tutti quei procedimenti connaturati al jazz: l'improvvisazione sugli accordi di un tema base, lo swing, la logica e la metrica del blues, il calore, la forza espressiva, la semplicità del discorso solistico. Rollins, insomma, ci tiene a ribadire che i suoi compagni di viaggio sono stati Bud Powell, Miles Davis, Thelonious Monk, Art Blakey, Max Roach, Clifford Brown, ovvero la storia del jazz moderno. Ma a differenza di molti di loro, Rollins non ha mai inteso il jazz come un genere ritualistico, anzi, se riesce ancora oggi ad eccitare il pubblico di ogni età lo fa con la forza dei suoi inarrestabili chorus, con i riffs travolgenti, con l'energia motoria dei suoi calypso (sua madre era arrivata a New York, dove lui è nato, proveniente dalle Isole Vergini nelle Piccole Antille). In oltre cinquantacinque anni di grande jazz - il primo a chiamarlo in sala di registrazione fu il mitico trombonista J.J. Johnson nel 1949 - Rollins non ha mai perso entusiasmo e voglia di sperimentare, unendo spesso al jazz il gusto per altre culture musicali. Abbandonò il quintetto di Miles Davis quando era al culmine del successo. Lo fece per dedicarsi interamente al suo strumento, il sax tenore, e visto che i suoi esercizi duravano in media diciotto ore al giorno, con le inevitabili proteste dei vicini, non trovò niente di meglio che andare ad esercitarsi sotto il ponte di Williamsburg, che collega Manhattan con Brooklyn. I suoi esercizi sotto quel ponte divennero materiale ghiotto per i giornalisti a caccia di colore e ben presto leggenda jazz. Sta di fatto che dopo mesi, Sonny Rollins si ripresentò al Village Gate con i capelli completamente rasati e una striscia al centro, un look mohicano, sorretto da una nuova fede religiosa, il buddismo, e una forte attrazione per la dottrina dei Rosacroce. Il nuovo disco si chiamò naturalmente «The Bridge», il ponte, e divenne subito un classico. Incostante, discontinuo, in grado di soffiare ancora nel suo strumento con una energia prodigiosa, Rollins è l'ultimo dei grandi del jazz a calcare le scene con convinzione, fortunatamente non più preda di ritiri ma solo di fervida creatività. C'è da giura

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