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Rosmini, il riformatore della Chiesa

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Il problema della libertà individuale al centro del suo pensiero

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Anche Alessandro Manzoni, al quale - nel segno di un lungo sodalizio intellettuale - egli consegnò il proprio testamento spirituale ("adorare, tacere, godere"), disse che il filosofo roveretano era "una delle sei o sette intelligenze che più onorano l'umanità". Non solo dal punto di vista teologico, ma anche secondo una prospettiva analitica confinata nell'ambito della teoria politica Rosmini merita di occupare un posto di assoluto rilievo. Nella cultura politica italiana risorgimentale, costretta a "fare i conti" con la presenza della Chiesa di Roma, il cattolicesimo liberale - che, nella sua versione d'oltralpe, quella teorizzata dall'abate bretone Lamennais, era già stato condannato da Gregorio XVI nelle pagine dell'enciclica "Mirari vos" (1832) - ebbe infatti il suo più alto esponente in Antonio Rosmini-Serbati. Nato a Rovereto, nel Trentino austriaco, da una famiglia della nobiltà locale, nel 1797, Rosmini si laureò in teologia a Padova, dove strinse amicizia con Niccolò Tommaseo. Nel 1821 venne ordinato prete a Chioggia e otto anni dopo, a Domodossola, fondò l'Istituto della Carità, congregazione religiosa dei rosminiani riconosciuta da Papa Gregorio XVI nel 1839 e poi seguita dal ramo femminile delle Suore della Provvidenza. A Milano, verso la metà degli anni Venti, conobbe Manzoni e lesse in bozze "I promessi sposi"; a Torino incontrò l'abate Lamennais. Furono due papi, Pio VII e, pochi anni dopo, Pio VIII che - oltre a dimostrare apprezzamento per la sua attività di organizzatore degli istituti di Domodossola e Stresa - lo incoraggiarono a proseguire negli studi teologici, verso i quali dimostrava un indubbio talento e una penetrante capacità analitica. Rosmini considerava la politica come la scienza umana per eccellenza e ad essa si dedicò con risoluta determinazione nel tentativo di approdare a una idea cristiana della persona che vive nella società moderna e con questa deve misurarsi. I suoi due scritti più importanti, dal punto di vista politico, "Delle Cinque Piaghe della Santa Chiesa" (composto nel 1832) e "La Costituzione civile secondo la giustizia sociale" apparvero nella temperie quarantottesca della "primavera dei popoli". Nelle "Cinque piaghe" Rosmini denunciò con vigore i "mali" della Chiesa: la separazione del clero dai fedeli che ne determinano il consenso e il successo, la modesta formazione culturale del clero che a livello locale svolge una funzione importantissima, le spaccature in seno ai vescovi e dell'episcopato con il Papa, la burocratizzazione dell'attività episcopale, l'eccessiva ricchezza e l'uso improprio dei beni ecclesiastici non finalizzati a opere di carità. In questa serrata critica e impietosa diagnosi rosminiana dei mali della Chiesa, concepita per ricondurla alla primitiva purezza, per certi aspetti - e su un piano opposto - pare di rileggere le pagine di un altro trentino, Carl'Antonio Pilati, che nel 1767 pubblicò "Di una riforma d'Italia", un'opera straordinaria nel suo furore dialettico e polemico che suscitò le più vive ammirazioni di Verri e anche del patriarca dei Lumi, Voltaire. Favorevole alla monarchia costituzionale e al governo rappresentativo, Rosmini appoggiò le posizioni giobertiane (entrambi convergevano sul primato della Chiesa di Roma) e il programma politico neoguelfo volto alla creazione di una confederazione di Stati italiani, "moralmente" guidata dal pontefice, che avrebbe conservato il potere temporale. All'inizio dell'agosto del 1848 il Consiglio dei ministri del governo di Torino gli affidò una missione diplomatica presso Pio IX in previsione della negoziazione di un concordato fra la Chiesa e il Piemonte. Il filosofo, riformatore della Chiesa, si trasformò allora in un uomo d'azione. Il Papa accolse Rosmini annunciandogli la porpora cardinalizia; ed egli venne anche a sapere della volontà di Pio IX di nominarlo Segretario di Stato. Subito si scatenarono le dif

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