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Viaggio d'artista verso la libertà

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Non ho parlato con lui né di musica né di letteratura né di politica né di attualità. Ma l'ho incontrato in un paio di occasioni, e forse qualcosa da raccontare ce l'ho. Dunque, lo scenario. Estate, una bella villa (ex- convento) a Montemagno, sulle colline di Camaiore. Si festeggia Dalia. Figlia di Giorgio e di Ombretta Colli. Lui e lei impegnatissimi con gli ospiti. Vip venuti dalla Versilia e dall'Italia tutta. Ma anche gente del posto, che ai Gaber e a Sandro Luporini è affezionata. Giocolieri e circensi vari divertono, intrattengono, vivacizzano. Si mangia, si ride, si spettegola. Un gran casino: gioioso, ma pur sempre casino. A un certo punto, Giorgio sparisce. Dov'è? Al riparo dalla buriana, in un angolo un po' appartato della casa, circondato da un gruppetto di persone, amici, conoscenti e soliti ignoti imbarcati per l'occasione, ha imbracciato la chitarra e canta. Vecchi successi. È già da qualche tempo il Signor G: eppure chiede alla sua amata di non arrossire, stimola la vanità di un'altra con la Torpedo blu ed evoca il Cerutti Gino come uno dei suoi amici più cari, un "drago" e un "mago", se vogliamo dirla tutta. L'incanto svanisce quando il solito cafoncello cerca di forzare questo amabilissimo Gaber fuori-programma e, alzando la manina, gli chiede: «Ma perché non canta...?». E tira fuori, speranzoso, la propria canzone preferita. Gaber solleva sopraccigli, sguardo e naso verso l'importuno e con tutta l'amabilità di cui può esser provvisto un perfetto padrone di casa, lascia scivolare un «Per favore, lasciatemi libero...», che si infila nelle coatte costole come una lama. Garbata, ma ghiaccia e acuminata. Ecco, a tutti coloro che tirano per la giacca Giorgio Gaber, noi diciamo: «Per favore, lasciatelo libero...». Non era dei nostri, non era dei vostri, non era di loro. Le sciamannate femministe gridavano: «Io sono mia». Ecco, Gaber — che non era né femminista né sciamannato — avrebbe potuto gridare: io sono mio. Con qualche ragione in più, senza svolazzi demagogici, senza uteri autogestiti. Io sono mio. Indubbiamente — e perché nasconderlo? — col passaporto rosso di chi ha respirato una cultura che — caso unico nella storia — è stata, a un tempo, quella del potere e del contropotere. Gaber, l'album di famiglia ce l'ha a sinistra: e si chiama progressismo, antifascismo, miti e riti radicalchic, e compagnia bella di compagni belli (e brutti). Ma quell'album, a un certo punto, se non lo straccia, perché ricordi, emozioni e bandiere non sono spazzatura; se non lo straccia, dicevamo, lo mette da una parte. Immaginiamoci una biblioteca, e un palchetto molto alto e molto nascosto: ecco, l'album di famiglia gaberiano è lì. Perché lui si è accorto di qualcosa e non può star zitto. Cavolo! Si è accorto che non è da lì che passa la rivoluzione. Non passa da nessuna parte, intendiamoci, perché in Italia il "trasformismo" non è solo politico, ma anche culturale: tutti ingoiano tutto e lo risputano trasformato, molti ex-comunisti si dicono riformisti e addirittura liberali, molti ex-fascisti sono a un passo da celebrare i valori della Resistenza... Ma la Sinistra vanta tali e tanti "imprimatur"! Allora, non è possibile "cambiare"? Gaber, il Gaber che cantava i vecchi motivi nelle feste di compleanno di Dalia e chiedeva di poter respirare in libertà, al cambiamento non ci credeva. Se mai aveva confidato in qualcosa o in qualcuno, non confidava più. Non si fidava più. Non si fidava delle mode, delle ideologie, dei tic, dei tabù, delle classi dirigenti, delle avanguardie militanti, delle pappardelle sovversive, degli uomini d'ordine, dei figli dei fiori,come di quelli delle P38, come di quelli, i più numerosi, di puttana... Gaber canta l'individuo che rifiuta di essere preso in giro. Proprio perché crede nella libertà, nella democrazia, nel progresso, nella critica, nell'anticonformismo, rifiuta le contraffazioni. Le liturgie cattiviste, come quelle buoniste. Lui, è un alfiere del disincanto. Senza speranza? Ma, diciamo meglio, con la speranza a lunga git

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