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Questa Italia malata di partitopatia

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È quel che fece - allora - un intellettuale liberale (ma anche dichiaratamente conservatore e reazionario) non sufficientemente ricordato: Panfilo Gentile. Che intitolò un saggio «Democrazie mafiose». Blasfemo, a dir poco. La democrazia non si tocca, la mafia deve essere combattuta e debellata. L'abbinamento suona sgradevole (ancorché azzeccato) ancor oggi, e c'è voluto il coraggio di un commentatore super partes, colto e inattaccabile (Sergio Romano), che ha firmato la prefazione, e di un giornalista controcorrente per vocazione e formazione culturale (Gianfranco de Turris), che ha curato la riedizione di quegli scritti antichi di Gentile, conservandogli il titolo, tale e quale («Democrazie mafiose», editore Ponte alle Grazie, 16.80 euro). Il titolo merita di essere spiegato. Con l'introduzione del suffragio universale divennero necessari i partiti, che avevano il compito di semplificare le scelte degli elettori, indirizzandoli verso candidati omogenei per ideologie, tutela di interessi, programmi politici. Negli anni Quaranta, mentre si formava la nuova democrazia italiana (dopo la parentesi fascista) un illustre studioso di scienza politica, Giuseppe Maranini, coniò un neologismo - partitocrazia - al quale arrise una grande fortuna, perché conteneva implicitamente la denuncia di un pericolo di degenerazione. Quarant'anni fa, Panfilo Gentile fu esplicito, proponendo il termine "partitopatia" per indicare lo stato patologico contrassegnato dall'occupazione - realizzata dai partiti - dei gangli statali a fini privati. Così avvenne la definitiva trasformazione della democrazia in democrazia "mafiosa", cioè "manipolata": un "regime di tessera" che si presentava come «un prodotto inevitabile della società contemporanea». Un male incurabile, in altre parole. «In questo regime di assolutismo delle segreterie, la democrazia è bella e liquidata - spiegò Panfilino, come lo chiamava affettuosamente Indro Montanelli, suo grande amico - quattro o cinque personaggi, abili mestatori nelle manovre di partito (tesseramenti, inflazioni di maggioranze, congressi prefabbricati e finanziamenti leciti e soprattutto illeciti), diventano i padroni incontrollati del Paese e portano al voto i rispettivi gruppi parlamentari, con museruola e con guinzaglio». Che avesse visto giusto lo devono ammettere ormai tutti, anche gli uomini di sinistra che Gentile avversava con tutte le sue energie intellettuali. Tangentopoli arrivò un quarto di secolo dopo a mettere i sigilli giudiziari alle intuizioni (e alle analisi) del politologo. Che aveva previsto tutto: la dilatazione mostruosa del debito pubblico (per finanziare e alimentare il clientelismo), il malaffare e la corruzione, perfino il consociativismo. E poi (specchio e riflesso di tutti i mali) il tramonto delle ideologie, che all'inizio del secolo avevano nobilitato la nascita dei partiti. Le considerazioni di Panfilo Gentile sono ancora validissime, dunque. Persino più di allora. «Se potesse vedere ciò che è accaduto in Italia dopo il 1992 - osserva Sergio Romano nella prefazione - Gentile constaterebbe che il quadro è cambiato. La parola partito, anzitutto, è scomparsa dalla ragione sociale di un certo numero di formazioni politiche: Forza Italia, Democratici di sinistra, Alleanza Nazionale, Margherita, Lega Nord, Rinnovamento Italiano, Italia dei valori, Socialisti italiani, Verdi, il Sole che ride. Lo zenith del paradosso fu toccato quando il progetto di Massimo D'Alema per il rinnovamento dei Democratici di sinistra venne definito "cosa": tutto, pur di evitare la screditata parola "partito"». Lessico a parte, la situazione non è mutata. E Panfilino ci vivrebbe scomodo. Un uomo fuori del tempo. Uno dei suoi amici, Gino Corigliano, che dirigeva la rivista «Libera Iniziativa» che pubblicò molte delle pagine memorabili di Gentile, scrisse di lui che «si trovò dalla parte sbagliata per il suo tornaconto, ma dalla parte giusta

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