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Sulle montagne l'evoluzione interiore
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MAX è un fisico. Con tali qualità che è chiamato a dirigere un gruppo di ricercatori in azione, a oltre mille metri sotto terra, nel celebre Laboratorio di Fisica Nucleare del Gran Sasso. È però così votato al successo che, pur di sottoporre dei risultati positivi a una importante riunione di ricercatori internazionali, falsifica dei dati. Denunciato da una collega, nonostante abbia con lei una sorta di relazione, è immediatamente costretto a rinunciare a quel suo incarico che per lui è la vita. Così, sconvolto, tenta il suicidio. Lo salva, prima derubandolo poi prendendone cura, un pastore macedone con problemi molto diversi dai suoi perché, nella sua misera condizione di immigrato, deve subire taglieggiamenti e ricatti da parte di un gruppo di trafficanti di clandestini. In quell'ambiente, però, a contatto con quel pastore in guerra con tutto, a cominciare da una natura matrigna, Max sembra ritrovare una ragione per vivere. Forse imboccando una nuova strada. Una storia non facile da seguirsi e anche da decifrarsi. L'ha rappresentata Daniele Vicari, dopo il successo della sua opera prima «Velocità massima», scrivendone il testo insieme con Antonio Leotti e Laura Paolucci. Date le due diverse ambientazioni — il laboratorio sotto terra, i pascoli sulle alte vette — anche la sua regia si muove in climi quasi opposti. Tra i fisici nucleari, tutto è asettico, gelido, come, inizialmente, il carattere del protagonista, incapace di rapporti umani. Sulle vette, tra le pecore, a tu per tu con le condizioni quasi disperate del pastore, l'umanità si fa avanti, i modi sono caldi e, quando di scena ci sono i trafficanti, si accetta persino l'avventura. Queste cifre, però, oltre a contraddirsi stilisticamente tra loro, non aiutano a chiarire molto, narrativamente, gli interrogativi psicologici cui la vicenda non risponde e alla fine si rimane con una sensazione di inespresso solo in parte fatta superare dalla lucida e intensa interpretazione di Valerio Mastandrea nella parte di Max. Prima secco, duro, scostante, dedito solo a un carrierismo spietato, poi, improvvisamente fragile, perché ferito, pronto più che a volere a subire una evoluzione interiore. Con esiti, si immagina, positivi.
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