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Da Chechi a Baldini, l'oro diventa racconto Uomini d'acciaio dall'anima spesso fragile

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Personaggi dello sport che affidano ai libri le proprie esperienze. Episodi. Eventi. Carriere. Talvolta vite intere. Confessioni. Testimonianze. Vanità. Rivendicazioni. Voglia di misurarsi dinanzi alla fedeltà di uno specchio, rivelazioni di un attimo fuggente, di una realtà che senza la scrittura, la propria scrittura, rischierebbe d'essere cieca e forse inaffidabile. In qualche caso, tentativi estremi di sopravvivenza. Accade, in genere, al termine di una carriera agonistica. È il caso di JurY Chechi, piccolo grande signore degli anelli olimpici di Atlanta ed Atene e di cinque titoli mondiali consecutivi. All'alba del 2005, con il suo "Semplicemente Yuri", ha scelto padre e madre destinatari d'un racconto in cui l'ebbrezza del trionfo ha spesso dovuto misurarsi con le fragilità del corpo ed i malesseri dell'anima. È il caso dell'avvocato Pietro Paolo Mennea, che ha messo mano alla sua "Grande Corsa" lungo il filo d'inchiostro di una memoria recuperata attraversando le infinite piste rosse dell'atletica internazionale. Fu il caso, primo probabilmente in Italia, salvo che un topo d'archivio non sveli la precarietà dell'affermazione, di Nedo Nadi e di Ugo Frigerio. L'uno insuperato fenomeno delle pedane schermistiche avendo stupito il mondo con le sei medaglie d'oro olimpiche del 1912 e 1920 ed i settantadue tornei consecutivi da cui uscì imbattuto. Il secondo, fanciullo d'Anversa con i due titoli olimpici nella marcia esaltati dal trionfo replicato quattro anni dopo a Parigi. Le armi appese ad una parete di casa, Nadi consegnò nel 1933 ad una pubblicazione della Gazzetta dello Sport il suo "Con la maschera e senza". L'anno successivo toccò a Frigerio, che lasciò la limpida eredità della sua storia sportiva nel "Marciando nel nome dell'Italia", prefazione di Benito Mussolini. Tornando all'oggi, non di biografia si tratta, ma certo è sorprendente scoprire su uno scaffale Mondadori un saggio di 144 pagine firmato dall'ultimo zar di Russia, Vladimir Putin. Imparare il judo, questo il titolo italiano di una pubblicazione che Silvio Berlusconi fece trovare nella camera del collega e che rappresentò una delle carte vincenti con cui il Presidente del Consiglio infranse l'impenetrabile mutria del russo, 6° dan dell'affascinante disciplina. Controcorrente, rispetto alla scrittura di fine carriera, il prodotto editoriale firmato da Stefano Baldini appena qualche mese dopo l'impresa di Atene, quell'impresa che nell'agosto scorso ha consegnato allo sport, alla società, alla cultura del nostro Paese, una pagina di rara intensità estetica ed umana. Con la mente già proiettata al traguardo di Pechino del 2008, venticinque giorni di raduno invernale in Namibia hanno aperto il cuore del maratoneta al racconto di una sfida che aveva preso avvio nel 1995, ottavo di una famiglia patriarcale di undici figli, nella cascina emiliana di Castelnuovo di Sotto. Procedendo nella lunga elencazione di autobiografie, non è scorretto dubitare talvolta della stretta coincidenza tra firma e paternità della pubblicazione. Difficile pensare, ad esempio, che siano state le dita di Maradona a battere i tasti per il suo burbanzoso "Io sono Diego". O che sia stato Paolo Rossi a riempire personalmente i fogli di "Ho fatto piangere il Brasile". Quasi sempre il titolo è la chiave interpretativa del testo. Quando Michael Schumacher scrive "Driving force" (senza dimenticare il recentissimo "La leggenda di un uomo normale", scritto su di lui da Leo Turrini), nelle due parole c'è tutta intera la filosofia della competizione che è alla base dell'istinto e del cervello del fuoriclasse pilota tedesco. Quando Cassius Clay firma "Il più grande", il ritratto è compiuto, totale. Restando all'estero, in questa frammentaria rassegna di (auto)biografie non passano inosservati due prodotti che hanno il tennis come fattore comune. Quello di Jaroslav Drobny, singolare figura di sportivo che segnò la sua

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