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Maggio Musicale. Il regista Corsetti compromette una bella «Tosca»

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Ultimissime su Napoleone

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Sono parole, quelle che fuoriescono di lí, affatto intorcinate, rottami tout-court che manco Dante riconoscerebbe per patrie. E allora siano benvenuti (e siano d'esempio) i sovratitoli in italiano anche con un'opera italiana, italianissima quale «Tosca», com'è avvenuto in occasione dell'apertura del Maggio Musicale al Comunale. Che ha goduto d'un'esecuzione musicale di grande bellezza: una «Tosca» che pareva un quadro piú esatto d'un Mondrian, piú polputo d'un Rubens, piú ferale d'uno Schiele. Ne sia dato merito alla direzione di Zubin Mehta, che ha con «Tosca» lunga e ferace frequentazione. Un tempo che il maestro indiano era giovinotto, od anche uomo d'una plenitudine vitale sorprendente (sorpresa alla madame), valevano le sue «Tosche» una buriana di pathos, una fiumana di sensualità incoercibile, ingorgo smoderato di ghiandole ed ormoni. Si salvasse chi poteva!... Oggi che anche lui, per discara ma ineludibile legge di natura, ha ammonticchiato diverse primavere sul tergo, la sua «Tosca» s'è fatta piú nobile e dolorosa: d'una fascino piú sottile: quasi una realtà poetica dalla natura sinfoniale nelle quale armoniosamente s'internano e si sciolgono gli estuosi canti dei personaggi. L'Orchestra è risultata una tavolozza cristallina di timbri; e gli strumenti, in ogni pur minimo intervento, atti icastici di una drammatica e spietata scolpitura: tali da rendere l'opera pucciniana d'un'impreveduta modernità e forbitezza linguistica: assai remota dal malgusto dell'impudico baccagliar veristico. Mehta, ma non solo. Al suo fianco una Tosca da manuale nell'interpretazione della lituana Violeta Urmana: vivida nel fraseggio, calibratissima l'espressione, agile nei sovracuti e tumida di catastrofe nel registri medî e gravi. Valoroso altresí il tenore Marcus Haddock dal timbro tornito, intensa la voce, elegante nel portamento: purtroppo era ed è notoriamente il suo personaggio, Mario Cavaradossi, affetto da bambinismo immedicabile, benché libero pensatore e schietto patriota. Hai voglia a modular da drago «Recondita armonia» e «E lucevan le stelle»: micco resta. Per contro, ci ha delusi chi sulla carta risultava il top del cast: intendiamo Ruggero Raimondi. Serata no. La voce era incerta e faticata, portata avanti con palesi artifizî del mestiere, sí che ne ha sofferto non poco la superiore natura di Scarpia: geniale sentina di torbidumi, alta fucina di soperchieríe lascive, insomma, l'unico essere umano della tragedia pucciniana degno d'essere tenuto per tale in virtú dei suoi umanissimi grovigli e delle sue generose sciagurataggini. Tuttavia, a scempiare la rappresentazione toscana di Firenze è stata la risibile regía di Giorgio Barberio Corsetti, che s'è immaginata l'azione, anziché agli esordî dell'Ottocento, negli anni Sessanta, o giú di lí, del Novecento. Con Scarpia che dà interviste in doppiopetto poliziesco, studio con televisore, cellulari... Suvvía! Che bischerata è mai che a cotesta macchietta burocratica di trent'anni fa si rechi la novella che Napoleone è stato sconfitto cent'anni prima?... Già, e Attila, di grazia, s'è saputo se s'è rabbonito? E Giulio Cesare, quel dado, l'ha tratto una bona volta? (Il detto B. Corsetti, presentatosi alla fine alla ribalta, è stato scudisciato da barocchi buuh! Applausi agli altri interpreti).

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