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Italiani tutti figli di Pinocchio

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Il capolavoro di Collodi riletto da Incisa di Camerana è lo specchio della Penisola

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Come tanti, forse tutti i ragazzini italiani, il Pinocchio che conoscevamo era solo un burattino e già qui avevamo preso lucciole per lanterne, visto che Ludovico Incisa di Camerana, nel suo saggio dedicato al noto personaggio collodiano, ci spiega la fondamentale differenza fra un burattino (testa di legno, lungo vestito e le mani del burattinaio infilate dentro a farlo muovere) e una marionetta (figura intera, di legno, con gambe e braccia proprie, mossa da fili). Ma non basta. Quella marionetta, per dirla con proprietà di termini, è l'immagine di un'Italia appena approdata all'unità e proiettata verso il futuro con tutti i difetti e le poche virtù che hanno fatto e faranno, nell'ottica temporale collodiana, il «bel Paese» quale lo conosciamo oggi. Lo stesso Collodi, nella biografia che Incisa di Camerana inframmezza alle pagine del suo libro («Pinocchio», uscito recentemente per Il Mulino, 160 pagine, 12 euro) si rivela personaggio assolutamente lontano da ciò che si può immaginare un «raccontatore di favole». Da buon toscano, cinico e irriverente, infatti, Carlo Lorenzini, diventato poi per tutti semplicemente il Collodi, vede con occhi assolutamente disincantati questa nuova Italia uscita dal Risorgimento e, per quanto giovane ardimentoso nella battaglia di Montanara, nulla ha dell'orgoglio militaresco ed anzi, prototipo del buon borghese, cerca con ostinazione (e con poco successo) il riparo accogliente di un pubblico impiego. Disilluso da quest'Italia unita ma stracciona, popolata da 17 milioni di analfabeti e con un parlamento infarcito di personaggi di bassa levatura (l'onorevole Cenè Tanti è il simbolo di quest'ondata di mediocri che, a Torino come di passaggio a Firenze e poi a Roma dovrebbero rappresentare il Paese e rappresentano invece solo i propri interessi - con invidiabile coerenza, fa notare Collodi - assolutamente al di sopra di qualsiasi altra cosa) il creatore di Pinocchio ne anticipa in numerosi scritti al vetriolo le caratteristiche, tratteggiando di volta in volta nei suoi scritti i vari tipi, maschili e femminili, che poi popoleranno il romanzo destinato a dargli la celebrità. Ed il libro di Incisa di Camerana è, in realtà, l'excursus storico che anticipa e accompagna la nascita e la vita del «suo» burattino - continuiamo pure a chiamarlo così - fin dalle prime parole, fin da quel «C'era una volta un pezzo di legno...» che apre le pagine del romanzo echeggiando quei «C'era una volta un re...», roba da serve, secondo l'aristocratico in pectore Carlo Lorenzini. Un libro, il Pinocchio dell'ambasciatore, che ben si inserisce nella collana «L'identità italiana» e che, in effetti, apre sui vari personaggio della storia originale punti di vista e prospettive mai pensate. Geppetto, il Grillo, il Gatto e la Volpe e naturalmente la Fata dai capelli turchini, acquistano contorni nuovi, simbolo di un'Italia che vorrebbe essere e non è, prospettiva di ciò che sarà. A legger bene ci si ritrovano novità assolute (come la triade «inglese, impresa, informatica», anticipata di cent'anni) e caratteri attualissimi (come il sessantottino presuntuoso) ci si insedia, dunque, in una specie di macchina del tempo che frulla il passato per restituire molto, moltissimo presente. Ne esce un profilo da «italiano tipo» assolutamente realistico, visto con occhi lucidi che sapevano guardare al futuro tanto da precorrere i passi della Storia con incredibile anticipo. Passando per mille avventure (compresa l'ipotesi di emigrazione - nel Paese delle Api industriose - che potrebbe essere «la Merica» dove far fortuna, ma senza andar tanto lontano anche la Genova dai mille commerci) Pinocchio alla fine si integra, diventa un «borghese normale» dopo aver sfiorato, nelle metafore collodiane che Incisa di Camerana legge con profondità inusuale, destini da schiavo, da nullafacente scapestrato (il Gassman del «Sorpasso»,

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