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Sempre attuale il buon liberalismo di Einaudi

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RISTAMPATE DUE OPERE

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Di fronte al tentativo, che non ha risparmiato neanche Einaudi, di certi neo-intellettuali organici di sfornare solertemente un certo liberalismo «à la carte», ignorando i princìpi pur di compiacere i prìncipi, la rilettura di Einaudi non può che costituire una salutare boccata di ossigeno. Saldamente ancorato al liberalismo classico, Einaudi si è impegnato a definire un liberalismo popolare, del quale la critica ai totalitarismi e la difesa dello Stato di diritto, del mercato e delle politiche sociali rappresentano i tratti distintivi. Per Einaudi la logica della competizione è il motore del progresso intellettuale e del benessere materiale, di conseguenza il principale compito dello Stato deve essere quello di difendere la concorrenza, combattendo i monopoli (pubblici e privati) fonte di «disuguaglianze sociali» e di «ladrocini commessi a danno della collettività». Ma la competizione può favorire l'emancipazione sociale a condizione che gli individui siano messi nelle condizioni di poter competere da una «legislazione sociale» che deve «avvicinare, entro i limiti del possibile, i punti di partenza degli individui». Lo Stato liberale, per Einaudi, deve intervenire per migliorare le chances dei più svantaggiati, con imposte progressive, tasse di successione sulle grandi eredità, servizi pubblici gratuiti, sussidi per i disoccupati, ecc., in modo da assicurare ad ognuno il «minimo necessario per la vita». E proprio questa convinzione dell'esistenza di un legame stretto tra economia di mercato e solidarietà farà dire ad Einaudi che liberali e socialisti possono fare un significativo tratto di strada in comune. Coloro che invece identificano il liberalismo con il «laisser faire» , avverte Einaudi, «non hanno letto mai nessuno dei libri sacri del liberalismo». Ma Einaudi non solo ha sostenuto, contro Croce, che «la libertà economica è condizione necessaria della libertà politica», egli ha anche difeso l'idea che le libertà e la competizione interindividuale possono essere fattori di progresso solo se vi è «l'impero della legge», che stabilisca vincoli «uguali per tutti». Un Paese, mette in guardia Einaudi, «nel quale i giudici non siano e non si sentano davvero indipendenti, i quali non siano chiamati a giudicare in nome della pura giustizia, se occorre, anche contro le pretese dello Stato, è un Paese senza legge, pronto a piegare il capo dinanzi al primo demagogo venuto, al tiranno, al nemico. Il presidio maggiore della libertà dei cittadini in Inghilterra è l'indipendenza dalla magistratura. La celebre risposta al mugnaio di Saint-Souci a Federico II, il quale voleva le sue terre: ci sono i giudici a Berlino! E' la prova che quella prussiana era una società sana». Un vero liberale chiede ai magistrati che «facciano osservare contro chiunque, ricco, potente o povero, la legge quale essa vige, e condannino chiunque la vìoli o pretenda di farsi legge del proprio arbitrio. E ciò facciano nonostante le raccomandazioni e le pressioni dei potenti, dei governi, dei prefetti, dei ministri, dei giornalisti e dei demagoghi».

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