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Fu un fiasco ma il pubblico poi appludì

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Il libretto glielo fornirono Luigi Illica e Giuseppe Giacosa, uomini di valore che trassero ispirazione e trama da un dramma di David Berlasco, che a sua volta s'era rifatto al racconto «Madam Butterfly» di John Luther Long: che a sua volta s'era rifatto a «Madame Chrysanthème», romanzo dello squisito Pierre Loti, che aveva siffattamente aperto a fin de siècle la moda della giapponeseria, con chincanglieria annessa, che tanto dubbio gusto avrebbe saputo insufflare nell'arte e nei modi dell'Italietta, anzi, dell'Europa Liberty. Fra i fiaschi piú clamorosi della storia del teatro in musica si contempla la prima assoluta della «Madama Butterfly», alla Scala di Milano, la memoranda sera del 17 febbraio del 1904: s'udirono nel "tempio" grugniti, muggiti, barriti, sghignazzate condite di fitte risa. Ma posta pronta mano ad una revisione (in specie, taluni tagli nel prim'atto ed il secondo diviso in due), il compositore toscano tre mesi dopo ripropinò il disavventurato melodramma al Teatro Grande di Brescia (28 di maggio): cavandone un enorme successo. Le prime valutazioni critiche, peraltro autorevoli, sulla «Butterfly» non è a dire che siano state lusinghiere. Arturo Toscanini non si peritò di manifestare in ogni occasione la propria antipatia; Ferruccio Busoni parlò d'una cosa «indecente» ed Ildebrando Pizzetti del «drammetto di Butterfly»; ed il perspicace Giulio Ricordi ritenne di trovarsi a fronte di un «peso piuma». Ma il pubblico non cessò dall'applaudire e la razza critica divenne a poco a poco unanime nel valutare «Madame Butterfly» uno tra i capolavori pucciniani: accosto a «Manon Lescaut», «Bohème» e «Tosca». E tale è rimasto il giudizio lungo il Novecento, fino ad oggi. Per certo conta quest'opera un solo personaggio dotato di concretezza d'arte: la protagonista quindicenne, Cio Cio San, che palpita d'una passione quasi autentica in una sua fragile e vitrea trasparenza: nella sua sostanziale realtà meno estremorientale che borghese e crepuscolare. A lei d'intorno tremulano senza pregî figurette leziose quale la serva Suzuki, e il figlioletto riccioluto della coppia nippo-americana, o buffi ghirigori quali Goro e Yamadori, od un deuteragonista affatto insulso come lo sciocco tenente della marina americana Pinkerton, «don giovanni da osteria» come s'è già sottolineato altrove. La mano pucciniana s'affina semmai nell'orchestrazione: cimento di sottile perizia timbrica e di scaltrita scrittura, galleria di miniature frutto d'una perscrutazione di natura esotico-estetizzante che solo di rado lambisce il kitsch, la leccatura, il compiacimento decorativistico (si pensi anche al celeberrimo «coro a bocca chiusa»). È qui, a fianco d'una tecnica compositiva superba per gusto di sperimentalismo e di preziosità strumentale, l'affermazione (tanto grata ai melomani) d'una poetica volta alle piccole cose, ai piccoli gesti, ai piccoli sorrisi, ai piccoli ninnoli, ai piccoli ventagli: gli stessi ch'empivano le botteghe contemporanee di via de' Condotti in Roma.

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