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Gato, genio indolente del jazz latino

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Suonerà al Parco della Musica nella «sua» Roma dove trovò identità e successo

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«Meo Patacca», storico ristorante turistico, lato S. Cecilia, volle aprire al jazz. Fra pizze, saltarelli e code alla vaccinara il quintetto di Gato Barbieri lasciò senza fiato i veri appassionati di jazz. Con lui, al piano, un giovanissimo Franco D'Andrea, arrivato fresco fresco da Merano. Gato era già con Michelle, sua moglie, apprezzata segretaria di edizione per importanti registi. Avevano lasciato l'Argentina nel 1962, approdando prima a Parigi, poi approfittando di una ospitalità senza fine da parte di amici musicisti. Parlava con eccitazione in una babele di lingue: una frase cominciata in inglese poteva sfociare in spagnolo e terminare in italiano. E così lo rivedremo dopodomani al Parco della Musica di Roma, tappa del tour che lo vede sul palco accanto al trombettista Enrico Rava, al pianista Danilo Rea, al contrabbassista Ben Street e al batterista Clarence Penn. Ma torniamo al primo Barbieri. Gato proveniva da Rosario, Argentina, la patria di Che Guevara. La sua famiglia era portata per la musica e lui imparò a suonare un piccolo clarino in una scuola per ragazzi («che avrebbero preferito stare in mezzo alla strada», aggiungeva lui). Quando la sua famiglia si spostò a Buenos Aires, cominciò ad ascoltare il jazz, prima le big band, poi la musica di Charlie Parker, Sonny Rollins, Miles Davis. Agli inizi degli anni Sessanta era già il primo sassofono dell'orchestra di Lalo Schifrin. Quando arrivò a Roma, sulla scia delle prime esperienze free jazz fatte a Parigi e soprattutto grazie ai film di Glauber Rochas, conquistò i romani per la sua creatività ma anche per la sua indolenza. Ma fu quel pubblico ad aiutarlo a trovare una sua identità, a sviluppare la mai sopita anima latina che avrebbe caratterizzato il suo successo commerciale negli anni Settanta. Un grande aiuto arrivò anche da Bernardo Bertolucci che gli commissionò cinque tanghi, uno dei quali divenne il motivo conduttore di «Ultimo tango a Parigi», che il critico del «New Yorker», Paul Kael definì «una pietra miliare nella storia del cinema...il film che mi ha impressionato di più in venti anni di recensioni». «El Pampero», «The Third World», «Felix» e soprattutto «Chapter One» e «Chapter Two» avvicinarono il sassofonista al pubblico giovane, che lo elesse stilista originale e ispirato, con un occhio attento alla realtà latina, argentina in particolare, ma anche desideroso di non perdere i contatti con i fermenti europei. A Roma tornò di rado ma ogni volta era una festa: al «Folkstudio» di Giancarlo Cesaroni o al «Music Inn» di Pepito Pignatelli, fans del jazz vecchi e nuovi si assiepavano intorno a lui, ormai anche con quel pizzico di fanatismo che spingeva a guardare la vicino il vecchio strumento quasi ossidato e l'immancabile cappello nero. C'è sempre stata gentilezza nella sua musica, una calma tutta latina, soprattutto nelle sue composizioni; al sax no, preferiva essere irruente, caricare duramente lo strumento, emanare rilassamento cercando sempre il «groove» giusto. Nella sua musica c'era l'urlo del Terzo Mondo e la pulsazione dell'hard bop, implodenti barilotti di ritmo e la dolente espressione di una «rivoluzione» cercata in tutto il mondo e forse trovata solo nelle chiavi del suo strumento con frasi ipnotizzanti che nessuno ha dimenticato. Gato Barbieri oggi ha 70 anni. Ha perso Michelle ma ha una nuova compagna e soprattutto un figlio piccolissimo. Continua ad esibirsi sui palcoscenici di tutto il mondo, forse qualcosa ha minato la sua creatività ma la voce strumentale è ancora inconfondibile. Certo, il jazz non è più quello che lui ha amato per tutta la vita, che lo ha portato a diventare un globe-trotter un po' malinconico ma non nostalgico.

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