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Il disgusto per un gesto stupidamente gratuito del celebre filosofo

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Ero appena diventato assistente universitario. Per me, entrato un decennio prima nell'Università cullando il miraggio di una cattedra di liceo, quel successo era come aver toccato il cielo con un dito. Ma lo stipendio era modesto, avevo già una famiglia numerosa e quindi, nella Ville Lumière, ero costretto a lesinare su tutto. Anche sul métro: e difatti mi feci per parecchi mesi la città in lungo e in largo a piedi. Anche sul cibo: campavo di caffè, di frutta e di panini di giorno, di mense universitarie la sera; una sola volta alla settimana mi concedevo un modesto ristorante. I soldini risparmiati li spendevo in libri. Ora so che quella era la felicità: allora, tali strettezze mi pesavano un po'. Col tempo bello, ogni sabato, avevo preso l'abitudine di andare a consumar il mio panino al Jardin des Plantes, adiacente al quale c'era (c'è ancora) un piccolo giardino zoologico. Lì stava la mia grande amica: una vecchia, enorme tigre siberiana dal manto quasi candido. Una rarissima tigre albina dagli occhi verdi, splendida, regale. Da lei ho imparato che cos'è la dignità. Immobile per ore, accettava tuttavia - regalmente, appunto - i bocconi di pane e i pezzetti di formaggio o di salame che le lanciavo: a patto che non cadessero troppo lontani dalla sua lunga lingua rossa o dalle sue zampone. Quanto vive una tigre? Ho cercato a lungo, in seguito, la vecchia amica. Invano. Quando leggo dell'Asia profonda, degli sciamani, del mito medievale della Manticora - il grande animale dal corpo di leone, dal volto umano, dalla triplice chiostra di zanne e dagli occhi di smeraldo (la tigre antropofaga delle storie indiane, passata in Europa attraverso i racconti di Alessandro Magno) - il suo ricordo m'invade. Vorrei ritrovarla un giorno ad aspettarmi insieme con un suo umile lontanissimo parente, il mio vecchio gatto morto sette anni fa, sulla soglia del Paradiso: se mai ci arriverò. Dico queste cose perché tutti noi siamo fatti della materia non solo dei nostri sogni, come diceva il buon William Shakespeare, ma anche dei nostri ricordi più cari, quelli che agli altri potrebbero sembrar banali. E perché a volte l'umanità e il senso di solidarietà con gli esseri e con le cose che trapelano dalle nostre esperienze e dalle nostre fantasie ci fanno comprendere che cosa davvero intimamente siamo. Il mio antico mai tradito amore per quel magnifico animale mi è tornato dolorosamente alla mente qualche giorno fa, leggendo il bell'articolo che alla memoria dell'illustre francesista Carlo Cordié, che ebbi l'onore di conoscere, è stato dedicato su Paideia dal suo più fedele allievo, il collega Pier Antonio Borgheggiani. Uomo incredibile, Carlo Cordié: un vero illustre pezzo della cultura italiana. Normalista a Pisa sotto Giovanni Gentile con Alessandro Perosa e Ludovico Ragghianti, allievo di Attilio Momigliano, amico di Leone Ginzburg, di Norberto Bobbio, di Eugenio Garin, di Alessandro Bonsanti, di Luigi Firpo, di Giorgio Spini, di Berto Ricci, di Ottone Rosai e di tanti altri. Ma Borgheggiani mi ha turbato, raccontando un episodio relativo alla visita a Milano, nell'immediato dopoguerra, di Jean-Paul Sartre e di Simone de Beauvoir. Dopo una conferenza, il grande filosofo esistenzialista e la sua compagna cenarono con Cordié. Poi, Sartre insisté per visitare lo zoo cittadino, che allora era in pieno centro. E, racconta Borgheggiani sulla fede di Cordié, «ivi arrivato, si divertì a spaventare un povero leone in gabbia lanciandogli, dall'esterno, delle pietre». La probità intellettuale di Cordié impedisce purtroppo di pensar a un episodio inventato. Dicono che, invecchiando, si ridiventa bambini. "Rimbambire", appunto. Comunque, le pietre scagliate dal Maestro della Nausea in quella gabbia, su quel vecchio re prigioniero e umiliato, hanno colpito anche me. Mi chiedo come la coscienza della violenza che l'uomo infligge quotidianamente alla natura e delle sofferenze che egli provoca, lo spettacolo d'una crea

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