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di ENRICO CAVALLOTTI ORA È un anno si spegneva a Roma Goffredo Petrassi.

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Il mondo dell'arte ne patisce oggi l'assenza, anche perché nelle sale di concerto e nei teatri lirici quella musica risuona troppo di rado, quasi mai, non ostante ingeneri e diffonda bellezza. Perché ignorare il maestro eccelso? Perché, in suo luogo, programmi insulsi o ripetitivi? Quella di Petrassi è una bellezza d'antico stampo, rigogliosa ed inequivoca. Non già che sia rimasta la sua scrittura al seno della tradizione postromantica o impressionistica, velenosa esca per il pubblico piú sprovveduto la cui ignoranza, foraggiata e laudata dai mass-media, propaga il morbo di un gusto alienato nell'àmbito d'un progressivo imbarbarimento artistico e culturale. La scrittura petrassiana ha saputo per contro sposare i sentimenti ed i contenuti della grande tradizione mitteleuropea alle correnti piú innovative del linguaggio dei suoni: dalla dodecafonia all'appassionata ricerca etnica; e ridurle ad una soggettività di vasto respiro poetico, ove una fantasia ed uno stile fondati sull'innata eleganza del segno, si sono nutriti del mondo e dell'uomo al maestro contemporanei. Un mondo drammatico, quello novecentesco, piagato dalla caduta del progresso umanistico, dall'imbestiamento delle anime, dai cataclismi bellici e dagli incubi ideologici: sí da render quasi afasica la stessa espressione musicale. Ad un secolo sfigurato dal dolore, il genio petrassiano, a tratti olimpico, perfuso d'un sorriso pacificatore, ha risposto vuoi coll'irruzione irrefrenabile della pura invenzione (un tempo già detta ispirazione), vuoi, sovr'a tutto, coll'arma salvifica insieme e micidiale dell'ironia. Un uomo, un fabbro alacre, lui; una materia tosta e munifica, la sua opera. Da rappresentare da parte di quelle istituzioni che pratichino il culto del passato insigne. Da ascoltare ed interpretare, da parte di chi ne sia capace, come duro monito e provvida speranza in uno.

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