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Cicerone, illusioni di un incallito realista

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C., vide l'avviarsi della Repubblica Romana al principato di Augusto e alla nuova realtà di un regime imperiale. Costretto a Roma dai miei impegni didattici, non ho, purtroppo, potuto partecipare al convegno, ma, grazie alla cortesia dell'autore, ho avuto la possibilità di leggere la relazione tenuta, sul tema «Attualità del pensiero politico di Cicerone», dal senatore Giuseppe Valditara, docente di Istituzioni di Diritto Romano presso l'università di Torino, l'unico, se ho visto bene, dei relatori a riprendere, con il suo impegno nella politica attiva e negli organismi legislativi della nostra Repubblica, l'esempio mirabile di un sofferto "engagement" nella quotidianità e nelle asprezze della vita politica di cui Cicerone rappresenta, non solo nel mondo antico, un modello forse ineguagliabile. Strutturata in tre parti, la relazione di Valditara illustra nella prima i valori su cui si fonda, secondo l'Arpinate, lo Stato romano, identificandoli con la proprietà posta «addirittura all'origine degli Stati»; la libertà, identificata con la democrazia e considerata l'opposto della tirannide; l'uguaglianza, che però non deve escludere il merito, il valore individuale, la differenza fra i diversi ingegni dei cittadini: «Il merito è alla base di tutta la filosofia ciceroniana della organizzazione sociale», il merito che deve far accedere alle posizioni di responsabilità i migliori, coloro che sono all'altezza del compito loro affidato. Nella seconda parte, la relazione esamina i fondamenti, direi, giuridici e sociali dello Stato quali li delinea Cicerone: la «familia», base ed origine dello Stato; la sovranità popolare; la concezione contrattuale dello Stato, che lo identifica non con qualsiasi aggregazione di uomini, ma con un «coetus multitudinis» legato da un accordo, da un contratto fondato sull'utile comune e da un accordo per la ripartizione dei diritti politici. Nella terza parte della sua relazione, Valditara si sofferma sul «progetto di riforma costituzionale» grazie al quale Cicerone sperava di arrestare la crisi dello Stato romano: muovendo dalla realtà di una struttura fondata sull'equilibrio, sempre più instabile, di tre forme di governo, la monarchica, l'aristocratica, la democratica, egli auspica nel suo «De legibus», la trasformazione del Senato «in una assemblea elettiva che si affianca al comizio nell'esercizio del potere legislativo», nella quale si possa entrare solo attraverso il voto popolare e che sia regolata, nello svolgimento della sua attività, da severe norme di disciplina e di comportamento. A fianco del Senato, un governo forte, unitario, fondato sulla sovranità popolare e rispettoso garante dei diritti individuali, che debba cedere i poteri, in caso di necessità, «ad un soggetto che abbia poteri rafforzati rispetto a quello dei consoli per un periodo limitato e soprattutto eletto dal Senato»: già nel 5° libro del «De republica», Cicerone aveva delineato la figura di un «princeps», al quale doveva toccare il compito di garantire l'equilibrio dialettico tra le varie forme politiche coesistenti nello Stato. Altro elemento della riforma ciceroniana, l'accresciuto potere dei censori, destinati a divenire una magistratura quinquennale, con il compito di controllare la legittimità dell'operato dei magistrati e il rispetto della legge, in un ruolo che anticipa, in un certo senso, quello delle attuali corti costituzionali. Fondata su un puntuale sfruttamento dei testi ciceroniani e arricchita e vivificata da un costante riferimento alle strutture di governo, non

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