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Savater l'anarchico moderato

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Intervista con lo scrittore basco

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Si definisce un "anarchico moderato", adottando la curiosa etichetta che gli affibiò la polizia franchista ma si batte in prima linea contro l'Eta, l'organizzazione terroristica basca che semina la morte in Spagna e che l'ha posto fra le sue vittime designate. L'ultimo suo saggio - che in Italia uscirà fra qualche mese - è «Il valore della scelta», in cui affronta il tema della libertà. Altri suoi libri di grande successo tradotti in italiano sono «Politica per un figlio» e «Le domande della vita» (entrambi Laterza). Rivolgiamo alcune domande a Savater, che oggi riceverà a Torino il Premio Grinzane Cavour per la lettura, in riconoscimento del contributo da lui dato alla diffusione del piacere della lettura, in particolare fra i giovani. Si è molto dibattuto negli ultimi mesi sulla questione della liceità o meno della guerra. Lei cosa ne pensa? «Per i pacifisti tutte le guerre sono cattive. È vero, ma anche tutti gli interventi chirurgici sono "cattivi": nessuno si sottopone con piacere a un'operazione. E tuttavia a volte è necessario farlo». Insomma, giustifica il ricorso alla violenza... «Vogliamo una democrazia internazionale, una Onu efficace? Ebbene, allora l'Onu deve possedere l'esercito più forte del mondo, finanziato con le nostre imposte. È un'idea impopolare, ma solo così potremo tenere a bada non solo i Saddam Hussein, ma anche i George Bush. Il pacifismo è un atteggiamento religioso». Lei da solo tiene testa alle minacce dell'Eta. «L'Eta ucciderebbe chiunque pur di conseguire i propri obiettivi. È un gruppo terroristico che cospira contro metà della società basca. In passato ho tentato a lungo di dialogare con i nazionalisti baschi: sotto la dittatura erano stati perseguitati e quando il franchismo finì, tutti pensammo che meritassero un riconoscimento. Ma poi ho capito che non c'è dialogo possibile con quella gente, e reputo giusto che il loro partito sia stato dichiarato illegale». Le sue idee vanno spesso contro corrente. «Non potrò mai unirmi al coro. Meglio morire perseguitati come King Kong, come un gorilla innamorato sulla solitaria cuspide di un grattacielo. Fin da bambino mi sono sentito perseguitato, perché ero sgraziato, con grandi orecchie, un occhio strabico e un tic della testa che ancora ho. I miei compagni di gioco ogni tanto si alleavano contro di me e mi gridavano: "Gorilla, gorilla!" Non mi aspetto niente di buono dalla massa, dai gruppi, dalle moltitudini. La massa maltratta i "diversi", e questa è una cosa odiosa». È stato perseguitato anche dal franchismo. «A quel tempo era inevitabile per chiunque fosse contrario al regime. Sono stato arrestato tre volte, ma sempre per brevi periodi. In seguito mi è capitato di vedere la mia scheda stilata dalla polizia: ero descritto come un "rivoltoso" e un "anarchico moderato". Una definizione che mi piace molto e che oggi mi diverto a usare». Che ricordo ha del carcere? «Lo affrontai con calma e allegria. Piansi solo un giorno, quando lessi su un giornale che era morto il grande attore Boris Karloff. Di recente al termine di una conferenza un giovane mi si è avvicinato e si è presentato come il figlio di un tizio che aveva condiviso con me la cella. "Mio padre - mi ha detto - mi racconta sempre che lì dentro tu lo facevi ridere molto". È il più bel complimento che mi sia mai stato fatto». L'allegria è il valore supremo? «Sì. Da ragazzo, a scuola un professore ci domandò: "Perché siamo al mondo?" E io risposi: "Per essere felici". Oggi invece risponderei: "Siamo in questo mondo per tentare di essere allegri"

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