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di CARLO ROSATI L'AVARIZIA è indubbiamente un male incurabile.

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Così è uno dei più grandi «Avari» della storia del teatro, Arpagone, scritto e interpretato da Molière, che ora viene impersonato da Gabriele Lavia al Teatro Verdi di Pisa (sarà all'Eliseo dal 13 gennaio). Già interprete del «Malato immaginario», del «Misantropo» e del «Don Giovanni», Gabriele Lavia afferma, ma pensiamo che sia un'iperbole, che Molière avrebbe voluto essere un attore tragico, dietro la sua maschera di comico, e proprio per questo, dietro il personaggio, vede un'avarizia che diviene non soltanto amore e religione, ma tormento e vizio. Per il suo «tesoro» Arpagone sacrifica tutto, anche Cleante ed Elisa, i figli, mentre gli salta in mente di sposare la giovanissima Mariana, della quale è innamorato Cleante: uno dei momenti più interessanti dello spettacolo con il duello tra Gabriele e Lorenzo Lavia, padre e figlio non solo sulla scena, ma anche nella vita. Quello di Lavia è un Arpagone in nero, dorme nella grande casa «fuori di sesto» ideata dallo scenografo Carmelo Giammello; una casa piegata su se stessa, con una scalinata un tempo bellissima, ora sbriciolata: la giusta e fatiscente reggia per un simile Avaro. Il suo dolore più grande, però, sarà quello di constatare le sparizione della cassetta trafugata da Saetta con l'aiuto di Cleante, ed al finale, quando non la ritrova, come è accaduto alla «prima» di Pisa (per un incidente scenico), Lavia improvvisa un fuori testo validissimo, affermando che è giusto che i soldi restino nel cielo; anziché addormentarsi beato, come Molière, dopo aver ritrovato la cassetta. Un lavoro applauditissimo dal pubblico del Verdi, ed insieme a Lavia vanno ricordati Andy Luotto, Mario Cavicchioli, Lorenzo Lavia, Giancarlo Condè, oltre alla Mariana di Emanuela Guaiana, alla Frosina di Clotilde Sabatino e allo straordinario e divertente commissario di Luca Fagioli.

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