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Piva ci riprova nella Bari «noire» con i cognati Rubini e Lo Cascio

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Intepreti principali, Luigi Lo Cascio e Sergio Rubini. Piva, la storia è tratta da un fatto realmente accaduto? «La suggestione iniziale nasce da un racconto che un mio amico mi fece tanti anni fa, e che mi colpì molto. Mi aprì uno squarcio su tutta una serie di eventualità che in una grande città ti possono accadere, senza che tu possa prevederle. C'è l'elemento scatenante che è il furto dell'automobile, però in realtà questa esplorazione della città è anche un viaggio dentro di sè, da parte di Vito-Luigi Lo Cascio, quello che ha la visione più diritta del mondo, accompagnato da un personaggio più scaltro e promiscuo, quale Toni-Sergio Rubini». Due protagonisti che rappresentano in qualche modo i due aspetti della stessa città, due anime che convivono, quella pulita e legalitaria contro quella intrallazzona. «La città che racconto io è possibile e potrebbe essere una qualsiasi del Sud d'Italia, dove convivono le due realtà, il chiaro e lo scuro. Questo aspetto viene fuori anche nello stile del racconto, sorridendo delle cose amare o amaramente delle cose ridicole». Il film inizia come una commedia e poi prosegue su toni più cupi, per arrivare ad un finale tragico. Una scelta ponderata? «Un tentativo di fare un film a doppia velocità, in qualche modo. Proprio partendo da un assunto fondamentalmente schizzofrenico». C'è anche una sorta di autocitazione con l'immagine della bisca dove ha girato «LaCapaGira» e l'inquadratura di pochi secondi dei protagonisti. «Esatto, ma quasi per gioco. C'è una incursione nel mio primo film, girato nella stessa città, quasi a voler dire che questi due mondi vivono parallelamente e che le due storie possiamo immaginarle accadute nella stessa notte». I dialoghi ne «LaCapaGira» erano sottotitolati, qui no. Perchè? «L'operazione lingua in questo film è decisamente più ambiziosa e complessa. Ho lavorato questa volta per raggiungere un pubblico più vasto, inutile negarlo. Visto anche il ricorso a due attori famosi e ad un budget decisamente più alto. Ho pensato di usare il dialetto che si parla nelle strade delle nostre città, non solo del Sud, come chiave di straniamento e deragliamento del nostro protagonista, con il quale si possa identificare anche lo spettatore. Facendo capire che sotto il suo sedere, nella sua stessa città, c'è una pentola a pressione incomprensibile, pronta ad esplodere». Luc. Vec.

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