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Buoni film resi amari da una dose di delusione

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Al momento tuttavia di tirare come al solito le somme della Mostra, non si può non riconoscere che, nel programma, pur disordinato e contraddittorio, c'erano dei buoni film, specie quelli che poi hanno avuto dei premi, sia pure sbagliati. Comincio con il migliore, «Buongiorno notte» di Marco Bellocchio, una rivisitazione del sequestro di Aldo Moro svolto soprattutto attraverso una possibile crisi psicologica e morale di alcuni fra i suoi carcerieri, mentre attorno la circostanza e la stessa epoca erano ricostruite, con meditata obiettività, anche nelle loro riletture più visionarie. Per restare al cinema italiano vi si deve aggiungere, pur fuori concorso, il film parlato in inglese di Bernardo Bertolucci, «The Dreamers», in cui il '68 a Parigi era rivisto, con abilità e intelligenza, attraverso una doppia chiave, quella del sesso, come in «Ultimo tango», e quella della cinefilia. Non si disconoscono, naturalmente, i valori cinematografici, narrativi e visivi, di quel «Ritorno» dell'esordiente russo Zvjagintsev cui, anziché il Leone d'Oro, sarebbe molto più giustamente toccato il Gran Premio della Giuria. Andato comunque, con meriti non dissimili, anche se meno intensi, a Takeshi Kitano che, con «Zatoichi», ha realizzato il suo primo film in costume, ispirandosi a Kurosawa pur con dell'umorismo in più. Senza dimenticare, premiato per la regia, il film libanese «L'aquilone» di Randa Chahal Sabbag» in cui con un amore di frontiera alla Giulietta e Romeo fra una libanese e un militare israeliano, il realismo d'ogni gesto approdava al surreale. In climi anche magici. Mentre, tornando nella Berlino del '43, Margarethe von Trotta, con «Rosenstrasse», ci ha dato certamente una delle opere più significative viste alla Mostra (l'Olocausto dalla parte delle donne), avaramente premiata solo citando la sua protagonista, Katja Rjemann. Ingiustamente escluso da ogni premio, invece, tra i momenti migliori di Venezia 60 va segnalato «Un film parlato» in cui il grande Manoel de Oliveira, con la mediazione di quattro donne di nazionalità diversa, era poeticamente riuscito a fare il punto sia sull'Europa di oggi sia sul terrorismo che l'insidia. Con stile magistrale. Per citare altri film con meriti, da contarsi però a questo punto sulle dita di una mano, bisogna tornare, come per «The Dreamers», a quelli fuori concorso, dal festosissimo «Anything Else» di Woody Allen, all'altrettanto festoso o addirittura esilarante «Prima ti sposo poi ti rovino» in cui i fratelli Coen, Joel e Ethan, hanno dimostrato come, grazie al loro estro, anche la farsa può diventare un genere nobile. Il resto può anche esser dimenticato, salvo qualche film proposto nella sezione Controcorrente che però - va ribadito e richiesto con fermezza — non deve più essere competitiva, con un secondo Leone, in palio e nel verdetto. Era stato uno degli errori più vistosi della gestione di Alberto Barbera. Ripeterlo non giova a nessuno. Né alla Mostra né al cinema.

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