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di ANTONIO SPINOSA ANAGNI, una severa cittadina sui monti Èrnici in Ciociaria a pochi chilometri ...

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Certo, non si tratta di un ceffone qualunque poiché vi sono implicati un pontefice e un re. Lo sanno tutti, ma, essendo l'evento verificatosi il 7 settembre di ben settecento anni fa, non si può non farne cenno. Il ceffone lo subì Bonifacio VIII come conseguenza di una sua idea assoluta: quella del papato posto al di sopra di ogni cosa. Egli aveva sostenuto questo principio in una bolla del 19 novembre 1302 cui aveva dato il titolo di Unam Sanctam. Vi ribadiva il primato e la supremazia della Chiesa sul potere civile, e lo faceva in termini assai duri: «Nella potestà della Chiesa sono distinte due spade, quella spirituale e quella temporale. La prima viene condotta dalla Chiesa, la seconda per la Chiesa. Il potere spirituale è superiore a quello temporale». A questa supremazia universale dei pontefici si oppose Filippo IV il Bello, il re di Francia, che vi contrapponeva il suo proprio potere di sovrano. Difatti egli «non riconosceva nessuno al di sopra di sé», e nel suo regno si riteneva l'imperatore. Sullo schiaffo intervenne Dante, ancora vivo in quegli anni, considerando il gesto un misfatto. Lo scriveva nel XX Canto del Purgatorio, e Filippo da sempre è stato giudicato come il più infame esponente della Stirpe dei Capetingi. Nella notte tra il 6 e il 7 settembre del 1303 due emissari di re Filippo — Guglielmo di Nogaret e Sciarra Colonna, una famiglia romana nemica mortale dei Caetani — penetravano nel palazzo papale di Anagni, dove allora risiedeva Bonifacio VIII. Il loro intento era quello di tradurre a Parigi il pontefice — prigioniero — se non lo avessero convinto, con altre gravi minacce, ad abdicare. Tutto ciò poiché lo ritenevano un papa illegittimo ed eretico. Perfino simoniaco, e tale colpa veniva denunciata dallo stesso Dante: nell'Inferno. Bonifacio, solennemente assiso sul trono, mostrava di essere pronto a offrire se stesso, la propria vita piuttosto che cedere a quelle gravi minacce. E Nogaret — oltremodo irritato per l'inutilità della sua missione — tirò di scatto un sonoro ceffone al pontefice. Il quale non soltanto oscillò, ma si procurò anche un grosso livido poiché la mano dello schiaffeggiatore era infilata in un ferreo guanto. E fu così che Anagni, la «città dei papi» e nella quale era nato lo stesso Bonifacio, assisteva inerme a uno dei più discussi episodi della storia medievale. Allo schiaffo seguirono tre giorni di prigionia imposti al pontefice, ma alla fine fu lui a vincere al punto che i suoi concittadini misero in fuga gli inetti aggressori. Papa Bonifacio, al secolo Benedetto Caetani, discendeva da una famiglia che da anni, altera e prepotente, regnava sulla rocca di «Anagnia», la cittadina che aveva già dato i natali a tre energici pontefici, e cioè a Innocenzo III, a Gregorio IX e ad Alessandro IV. In quegli anni la Chiesa si trovava ad attraversare uno dei suoi momenti peggiori, tanto che basterebbe ricordare come ben otto papi si fossero avvicendati in soli venti anni. Molti erano i peccatucci di papa Caetani. Difatti egli era un uomo ingordo, un giocatore arrabbiato e soprattutto un bestemmiatore dei più volgari quando negava addirittura l'immortalità dell'anima. Portava in tasca una piastrella di origini egiziane e, al dito, un anello che era stato strappato al cadavere di re Manfredi. Il giorno dell'incoronazione aveva brandito una spada e, a mo' di imperatore, aveva messo in guardia il mondo dichiarando che nessuno avrebbe mai potuto dubitare del primato della Chiesa. Era entrato presto in contrasto con la famiglia romana dei Colonna e soprattutto con i sostenitori delle dottrine spiritualistiche, quelle che il 10 maggio del 1297 avevano pubblicato il Manifesto di Lunghezza col quale si bollava come illegittima la sua elezione. La reazione di Bonifacio era stata durissima, e difatti in una bolla egli scomunicava i due cardinali promotori dell'opera, Giacomo e Pietro Colonna. Fu altresì scomunicato e rinchiuso in un convento il poeta mistico Iacopone da Todi, il ca

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