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Benvenuti e Giuliano Troppa fantapolitica

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Il primo, ieri pomeriggio, «Segreti di Stato», realizzato da Paolo Benvenuti noto nel nostro cinema per le sue ricerche sulle immagini («Confortorio», «Costanza da Libbiano»). Questa volta, invece, anziché al linguaggio, ha dato spazio ai contenuti, affrontando la strage di Portella della Ginestra nel '47 già presa in esame da Francesco Rosi nel suo «Salvatore Giuliano». Costruendovi però attorno, con uno schema ripreso da certe inchieste del cinema di Hollywood, una serie di ipotesi che, pur qualcuna avvalorata da documenti, non solo restano tali, rasentando la fantapolitica, ma non sono poi sostenute da modi di rappresentazione convincenti, sia sul piano narrativo sia su quello dello stile. Si parte dal '51, con il processo di Viterbo ai responsabili della strage e con la morte, l'anno dopo, in carcere, di Pisciotta, avvelenato perché tacesse. Immaginando che il suo avvocato (Antonio Catania), conducendo un'indagine personale, arrivi a un teorema che vede nei mandanti della strage gli americani, il Vaticano, la mafia, la massoneria. Per la sua dimostrazione, opinabile, Benvenuti ha fatto ricorso perfino a un gioco di carte con foto, del tipo di quello per scovare i complici di Saddam, mescolandovi disegni (come sulla stampa americana per i processi), plastici vari e sopralluoghi per ricostruire, secondo il teorema, i fatti del '47. Qualche pagina ha una sua intensità (il processo a Viterbo, l'avvelenamento di Pisciotta dato quasi di riflesso), ma l'affastellarsi di intenzioni linguistiche in contrasto, dal concreto all'immaginato, e lo snodarsi statico delle occasioni del racconto, giungono di rado ad approdi conclusi. Facendo rimpiangere il cinema di forte impatto anche visivo cui Benvenuti ci aveva abituati. Quasi solo valori figurativi, invece, e sonori, nell'altro film in concorso, «Bu Sa, arrivederci Dragon Inn», firmato a Taiwan da Isap Ming-Liang, già vincitore qui di un Leone d'Oro per «Vive l'amour». Un vecchio cinematografo, la proiezione in sala di un classico del cinema di Taiwan, «Dragon Inn», appunto, pochi spettatori, alcuni interpreti del film evocati anche in platea, come fantasmi. Immagini buie, a lungo tenute, il predominio dei suoni. Per arrivare a un clima di sfacelo che sublima la cronaca nell'irrealtà. Imponendo uno stile. Doti che mancano al film francese fuori concorso «Ibrahim e i fiori del Corano» in cui François Dupeyron ha immaginato, come in una favola, un rapporto padre-figlio tra un vecchio musulmano e un bambino ebreo. Proposto soprattutto perché il protagonista è Omar Sharif, cui hanno dato un Leone d'Oro. Lo si accetti per questo.

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