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Roma città aperta. Ma fu beffa

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Quella è la sequenza simbolo del neorealismo, del cinema di Rossellini, di Roma città aperta. Le giornate terribili del 1943 e del 1944, della capitale occupata dai nazisti, della fame, della miseria, della lotta clandestina, delle rappresaglie, raccontate da un grande regista all'indomani della tragedia. Il film fu girato nel 1945, in condizioni precarie, con pellicola scaduta, ma con una passione e una maestria che ne fecero un capolavoro, il simbolo della rinascita artistica italiana dopo la guerra. Roma città aperta non era un titolo di fantasia. Era la formula coniata dal maresciallo Badoglio all'indomani del secondo, crudele, bombardamento subìto dalla capitale, il 13 agosto del 1943, ventiquattro giorni dopo quello di San Lorenzo, diciotto giorni dopo la caduta del fascismo. Il 14 agosto, il capo del governo dichiarò Roma «città aperta», priva cioè di comandi e di reparti militari e di qualunque altro obiettivo di interesse strategico. Era un tentativo per evitare che la capitale subisse altre incursioni aeree. Un mese più tardi - il 10 settembre - dopo l'annuncio dell'armistizio di Cassibile e la capitolazione dei romani, il maresciallo Albert Kesselring accettò di confermare lo stato di «città aperta», nell'accordo sottoscritto dal conte Carlo Calvi di Bergolo, ma s'affrettò (il giorno seguente) a insediare un comando militare. Di fatto - più che «aperta» - Roma si trovò nella condizione di città «occupata». Il 26 settembre la comunità israelita subì l'imposizione di consegnare (entro trentasei ore) 50 chilogrammi d'oro ai nazisti, in cambio della vita di 200 ebrei. Il 16 ottobre un rastrellamento del Ghetto portò all'arresto e alla deportazione di 2091 cittadini ebrei (ne sarebbero tornati vivi, al termine del conflitto, soltanto 15). Il 3 aprile del 1944 venne fucilato dai tedeschi, a Forte Bravetta, don Giuseppe Morosini, per aver fornito assistenza ai partigiani. A quella vicenda si ispirarono gli sceneggiatori di Rossellini (fra i quali figurava un giovanotto alle prime armi, Federico Fellini) per disegnare la figura del prete interpretato da Aldo Fabrizi. Scarseggiavano i generi alimentari, dilagava la borsa nera, la cittadinanza viveva in un clima di terrore. Mancava l'acqua (che si trovava soltanto alle fontanelle), il coprifuoco accresceva i disagi e - dalla metà di febbraio del '44, in coincidenza con lo sbarco alleato ad Anzio - ritornò l'angoscia dei bombardamenti e della corsa quotidiana verso i rifugi. Nel film di Rossellini, Maria Michi urla al suo ex amante, l'ingegnere comunista Manfredi (interpretato da Marcello Pagliero): «Sì, ho avuto degli amanti, certo... Che cosa dovevo fare? Con che cosa credi che abbia comprato questi mobili, i miei vestiti, tutto? Con la mia paga? Eh, la mia paga... Mi basta per le calze e le sigarette... Mi sono arrangiata come fanno tutte: è la vita». E alla replica dell'uomo («La vita è come vogliamo che sia»), lei risponde sprezzante: «Parole! La vita è una cosa brutta, sporca». Paolo Monelli, grande giornalista, descrisse con altrettanta crudezza il clima di quei giorni in un libro memorabile («Roma, 1943»): «Quando gli impiegati dello stato, dagli infimi ai più alti, hanno stipendi che sono la quinta parte di quanto occorre per mangiare e pagare l'affitto di casa - non dico per vestirsi o andare al cinematografo, o comprare un libro - e se vogliono campare non hanno altra scelta che vendere tutto quello che hanno in casa, o trafficar con la borsa nera, o rubare, o lasciarsi corrompere; quando le mogli dei prigionieri di guerra hanno poche lire al giorno e sono poste dinanzi all'alternativa, o tender la mano o prostituirsi, ed i pensionati dovrebbero star contenti a poche centinaia di lire al mese, come si può chiedere ad un paese di mostrarsi allo straniero con tutte le sue virtù festive?». Per questo, scrisse Monell

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