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di GABRIELE SIMONGINI UNA super-mostra, con un super-catalogo (552 pagine con 490 riproduzioni ...

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La rassegna che il Grimaldi Forum di Montecarlo, affacciato sull'Avenue Princesse Grace, dedica ad Andy Warhol (fino al 31 agosto) è forse l'evento espositivo più eclatante di questa torrida estate. A curarla è Germano Celant ed è impressionante anche l'impegno economico dell'iniziativa, fortemente voluta dal principe Ranieri III. Fra le numerose opere esposte e distese fra i primi anni Sessanta e il 1986, un anno prima della scomparsa di Warhol, hanno la parte del leone i «large-scale works», lavori di grandi dimensioni a cui l'artista dava una notevole importanza. In ogni caso sono rappresentate tutte le tappe e le opere principali del fecondo percorso creativo di Andy Warhol, che sempre più si rivela, nel bene e nel male, come il vero padre dell'arte dei giorni nostri, quella della produzione di massa e della fusione fra linguaggi creativi (pittura, fotografia, cinema, televisione, pubblicità, teatro). Per primo Warhol ha capito che nell'odierna società dei consumi e delle immagini ogni cosa ha lo stesso valore delle altre nel momento in cui la sua apparenza è appiattita nella quantità della ripetizione: i volti delle star idolatrate dal pubblico - da Marilyn Monroe a Elvis Presley, solo per citarne due - i potenti della terra (Mao Tse-tung), lo stesso Gesù Cristo, ma anche le bottiglie di Coca-Cola, le scatole di zuppa Campbell, le fotografie di sedie elettriche o di agghiaccianti incidenti stradali. Tutto è anestetizzato, svuotato, massificato, sospeso nella dimensione della pura apparenza, quella che non è più vita ma non ancora morte. L'idea romantica della personalità dell'artista non conta più, perché Warhol si trasforma in un meccanico ricevitore e ripetitore di immagini. Nel catalogo sono opportunamente presentate anche molte foto che ritraggono il caotico studio di Warhol, l'ormai mitica «Factory», in cui chiunque poteva entrare, senza alcun permesso o controllo, per partecipare o semplicemente assistere a quel disordine organizzato della produzione creativa di Andy, primo teorizzatore dell'arte come puro business, come arte degli affari. L'unica regola a cui doveva sottomettersi ogni visitatore della Factory era quella di munirsi di un gettone se voleva fare una telefonata, come sarebbe avvenuto per strada. Negli ultimi dieci anni del percorso di Warhol si rafforza con evidenza una tendenza verso l'astrazione che però parte sempre dal contatto con motivi tratti dalla realtà quotidiana: ne danno prova, in mostra, le opere dei cicli «Oxidations» (1978), «Rorshach paintings» (1984) e «Camouflage paintings» (1986), ispirate alle tute mimetiche dei militari. E sono esposte varie versioni dell'ultima opera dell'artista, «The Last Supper» (1986), in cui Warhol cita a modo suo «L'Ultima cena» di Leonardo da Vinci: una con il Cristo ripetuto 112 volte, un'altra piena di moto Harley Davidson, fino a quella cui si sovrappone l'ingrandimento di una tuta mimetica. La mostra «SuperWarhol» convive perfettamente con l'ambiente asettico del Grimaldi Forum di Montecarlo, dando il ritratto preciso della contemporaneità oggi dominante, ossessionata dalle immagini-simulacro, anticipata e profetizzata da quell'impassibile, sorprendente folletto dai capelli bianchi e lucidi.

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