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di FRANCESCO VITALI «IL fascismo aveva tra gli altri suoi difetti quello di far apparire ...

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Si diceva che costoro fossero geni. E a questa razza di geni appartiene Dino Grandi che aveva il vantaggio di una barba perlomeno autorevole». Queste le parole di Ennio Flaiano sul gerarca fascista, Dino Grandi, di cui viene colta la profonda distanza politica dagli intransigenti alla Starace. Giudizio che trova rispondenza anche nell'ultimo studio del maggior biografo di Dino Grandi, Paolo Nello che ripercorre tutta la vita e la parabola politica del noto gerarca fascista (P. Nello, Dino Grandi, Bologna, Il Mulino, 2003). Dino Grandi ebbe da giovane un percorso comune a molti di coloro che vissero quel periodo convulso e confuso, successivo alla Grande Guerra. Si pensi che entrò nel movimento fascista persuaso che esso fosse una guardia nazionale nata per difendere l'Italia contro il pericolo rosso. Inizialmente si schierò contro Mussolini ma rientrò nell'ortodossia al Congresso del 1921 e da quel momento identifica il fascismo con la necessità della dittatura mussoliniana, ponendosi al servizio del duce e contrastando in ogni modo le istanze del fascismo radicale di cui ritiene conclusa la ragion d'essere. Ciò si manifestò con il moderatismo mostrato da Grandi nel 1922 a proposito della «Marcia su Roma» e soprattutto con riguardo all'affaire Matteotti. Dopo essere stato sottosegretario agli Interni, entra nel mondo diplomatico con diversi incarichi, fino a ricoprire il ruolo di ministro degli Esteri dal 1929 al 1932, per poi divenire ambasciatore a Londra dal 1932 fino al 1939. Il disegno di Grandi di stabilire un legame più stretto con l'Inghilterra e con la Francia fallisce per l'opposizione esercitata da questi due paesi nella Società delle Nazioni in occasione della Guerra d'Etiopia. A partire da quel momento l'Italia realizza, per esclusione, l'alleanza con la Germania secondo le direttive di Galeazzo Ciano. Dopo la firma del Patto d'acciaio Grandi viene richiamato in patria e diviene ministro di Grazia e Giustizia, dove prosegue la sua lotta all'integralismo del Pnf. Si arriva così all'episodio del Gran Consiglio del 25 luglio in cui Mussolini viene sfiduciato. Nella famosa riunione l'autore sottolinea come Mussolini, contrario alla mozione Grandi, che contempla il suo accantonamento e minaccia la sopravvivenza del fascismo, deve ripiegare sul suo ordine del giorno a causa del ruolo giocato da Scorza segretario del Pnf. Grandi «in fondo, sperava di non passare alla storia solo come l'uomo del 25 luglio. Non era un traditore. Non si sentiva un giustiziere. Ma gli ripugnava pure l'etichetta di "apprendista stregone" dell'antifascismo. Perché, in fondo… continuava a sentirsi più fascista mussoliniano che mai. Di quelli, per intendersi, che si ripetevano nostalgicamente: "Eh, se si fosse fermato al 9 giugno del '40!"». Come se ciò fosse stato possibile.

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