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Dai Rolling Stones a Springsteen Le leggende non invecchiano

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E chissà se dal palco di San Siro, due giorni fa, Mick Jagger avrà ricordato questa sua minaccia del 1972. Ora che è ultrasessantenne, il leader dei Rolling Stones ha trovato l'escamotage per sciorinare il suo repertorio senza troppi sensi di colpa: «Quando hai trent'anni, la gente comincia a dirti: "Sei già un po' vecchio, no?" Tu rispondi: "Sì, è così". Poi questo si supera e tu continui a parlare per un pubblico di adolescenti. E loro cominciano a pensare che tu hai la stessa età "di sempre"». Ed è, questa, l'unica soluzione praticabile. Sottrarre il rock primigenio alle ingiurie del tempo, allestire gerontocomi negli stadi, creare una zona franca estetica dove al massimo temere qualche ruga, ma come nell'Olimpo non consentire crepuscolo, o fine. Perchè, malgrado i troppi lutti accertati, "il rock'n'roll non muore mai", come suggeriva Neil Young già 25 anni fa. L'addio non è previsto, per le rockstar, neanche dopo che vengono calate nella fossa: il mondo è pieno di detective e fans che ancora dubitano della morte di Elvis, Jim Morrison, Jimi Hendrix. Li avvistano ovunque, ne scoprono tracce "inconfutabili". Figurarsi quando i padri nobili sono in giro a dimostrare che il ricambio generazionale non è possibile, nè sensato: il futuro del rock non è affidato ai vari Radiohead, Coldplay, Marilyn Manson. Tra dieci anni la faccia patibolare di Keith Richards, ormai intagliata nel legno, e gli sculettamenti di Jagger potrebbero essere ancora un "hot ticket" del circo rock. Dalla loro parte, l'effetto nostalgia, che ad ogni successo degli anni Sessanta-Settanta fa riaffiorare nel pubblico d'antan le care memorie adolescenziali: canzoni come madeleines proustiane. E anche, per gli artisti, la necessità di sentirsi gagliardi, immarcescibili. D'altra parte, molti tour e produzioni discografiche dei "dinosauri" nascono dalla necessità di far quadrare il bilancio, come è accaduto agli stessi Stones o a Elton John, tartassati dal fisco, a Bowie, logorato dai rovesci del suo titolo in borsa, o a un florilegio di nomi da palchi estivi, e che paiono tirati fuori dalla polvere dei secoli: Yes, Vanilla Fudge, King Crimson, Procol Harum, Deep Purple, Patti Smith. Poi ognuno propone la propria ricetta per non sentirsi la macchietta di se stesso: Paul McCartney ha affrontato la sindrome del "when I'm 64" puntando su scenografie come Colosseo e Piazza Rossa, mascherandosi da monumento, lasciando intravedere così, in filigrana, di non aver mai superato l'angoscia da dopo-Beatles. I Led Zeppelin tornano primi in classifica in America con un superbo triplo cd dal vivo, "How the West was won", e un doppio dvd: ma c'è il trucco, perchè i concerti sono del 1972, e la vera controprova si avrà solo nel 2004, quando i tre Zep superstiti (Robert Plant è già in tour quest'estate) forse affronteranno uno storico giro del mondo in concerto. Bob Dylan si estenua da anni in un vagabondaggio sui palchi, dove rumina i propri classici, beffandosi così della sua leggenda. Mentre per il 53enne Bruce Springsteen ogni show diventa un incantesimo a sè: con la sua E Street Band che suona a memoria, e con un'offerta che modula, di volta in volta, le esigenze di una festa da stadio, la qualità letteraria della grande tradizione cantautorale, e la riflessione politica post-11 settembre. Quanto ai Pink Floyd, il loro gigantismo si è trasformato in understatement con la ripubblicazione, dopo trent'anni, di "The Dark Side of the moon", l'unico album che nella storia del rock ha traversato i decenni senza apparire datato: in quei solchi i Floyd si immergevano in un' esplorazione hi-tech dell'inconscio, trovando una meta profonda, sottratta a ogni logica di effimera avanguardia. Un percorso analogo a quello di Peter Gabriel, tornato con il maestoso "Up", tormentosa lettura dei temi della nascita e della morte, e capace di spettacoli in cui, con la levità di un mago, inventa poesia. È, questo, il rock che si suona sull'Olimpo: senza più trasgressione, ma con i

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