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di MAURIZIO IORIO DUBLINO — È proprio vero che i concerti alla luce del giorno perdono di fascino.

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Non che prima il Boss si fosse risparmiato. Ma il vero problema, fuori dall'Italia, è il pubblico. Gli irlandesi passano per essere i più caldi degli anglosassoni, ma il loro modo di vivere i concerti è molto diverso dal nostro. Più distaccati, a volte addirittura disinteressati, chiacchierano e bevono fiumi di birra come se l'uomo sul palco fosse un inutile orpello della serata. Salvo poi beccarsi una rampogna da parte del Boss: «Sollevate le vostre chiappe irlandesi (testuale, ndr) dalle sedie, ché vengo a controllarvi uno per uno». E lì, toccati sul vivo, i quarantamila dell'RDS, storica arena al centro di Dublino, hanno cominciato a muoversi come si necessita in uno show del genere, che promette faville per il primo concerto italiano, domenica prossima allo stadio Franchi di Firenze, e per quello del 28 giugno a San Siro a Milano, entrambi sold-out. E sarà tutt'altra musica, perché solo gli italiani restituiscono dal basso quello che il Boss distribuisce dal palco. Non è un caso che a Dublino, ma anche a Manchester, Londra e Parigi, le prime venti file sotto al palco siano state occupate da italiani, giunti qui con ogni mezzo e dei quali Springsteen ormai conosce tutte le facce. Come quella di Alfredo, ingegnere fiorentino della Telecom, che il Boss ha addirittura salutato durante il concerto. «Il problema fuori dall'Italia è il pubblico - conferma Alfredo - sono molto più freddi di noi. Non a caso i migliori show sono quelli spagnoli ed italiani». Nonostante questo il concerto dublinese è stato comunque straordinario. Perché il Boss ha ritrovato sua vena primitiva di eroe del rock'n roll. Il tono dolente dello scorso anno è completamente scomparso, la ferita dell'11 settembre si sta lentamente rimarginando. E non è un caso che, nonostante questo sia il tour di The Rising, l'album non costituisca più la spina dorsale della scaletta. E non è un caso, ancora, che a Dublino l'apertura sia affidata ad una versione acustica di «Born In The Usa», l'orgoglio patrio prima di tutto. I primi piani del viso di Springsteen sugli schermi giganti ce lo mostrano felice come un bambino, con gli occhi di una persona innamorata del suo pubblico e delle sue canzoni, della sua band e della sua signora, Patty Scialfa, con la quale duetta spesso e volentieri. Dalla scaletta spuntano fuori gioielli d'altri tempi, come Candy's Room o Kitty's Back, datata 1973, in versione mozzafiato. Il «c'mon band», con cui il capo invita i suoi ragazzi a darsi una mossa dopo la breve pausa, la dice lunga sull'energia che questo signore di 54 anni sprigiona sul palco. Trascinante la versione di Mary's Place, con la roboante presentazione della band, Ramrod sono 10 minuti da infarto, Born To Run finalmente smuove l'Irlanda, Glory Days tura fuori i sudori da birra, Thunder Road commuove, come sempre, anche dopo 10.000 ascolti. E, come una volta, scenette, gags, scivolate ai piedi del gigantesco sassofonista Clarence «Big Man» Clemons, facce da schiaffi insieme a Miami Steve. Insomma, tutto il repertorio del consumato attore dei bei tempi. E allora arriva Dancing In The Dark, per ballare nella notte. Una notte stranamente calda per queste latitudini. Il catino del Franchi, a Firenze, sarà ancor più bollente.

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