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di PIETRO IMPALLOMENI IL QUADRO di un pittore italiano, Bruno Grassi, è al centro di un vivace ...

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Si intitola «Il campo della morte». È un quadro ad olio di ragguardevoli dimensioni: due metri per 80 centimetri. È stato esposto al Troni Art Center di Washington. È il quadro del post 11 settembre. È stato infatti concepito sull'onda dell'emozione subita da Grassi dopo l'attacco terroristico alle due torri e dopo i ripetuti massacri in Israele da parte del kamikaze palestinesi. Ha preceduto di pochi mesi la risposta militare americana in Afghanistan e di più di un anno la guerra contro l'Iraq di Saddam Hussein. Bruno Grassi, nel suo studio di Calendasco (Piacenza) ricavato in un antico convento che si trovava sulla via Francigena, cioè su quella via che, dal centro Europa, conduceva i pellegrini a Roma, dice: «Il mio non è un quadro politico ma esistenziale. Testimonia l'angoscia di una deriva verso la barbarie che sta squassando il mondo. Io parlo da pittore, da artista, non da politico. Io non ho altre armi che i pennelli. Non ho altro messaggio che la mia angoscia che però vedo è anche l'angoscia di tanti, se non di tutti». Ma non tutti la pensano così. La voglia di tirare dalla propria parte la coperta corta della ragione, ha fatto leggere l'opera di Bruno Grassi, nella capitale degli Usa, in chiave anti-islamica oppure in chiave anti-occidentale. Da qui le polemiche e i contrapposti anatemi: «Viviamo in tempi eccitati e manichei - spiega Bruno Grassi - tempi non quali c'è sempre meno spazio per il confronto e per l'analisi delle reciproche ragioni. E sempre più spazio invece per le demonizzazioni incrociate. La guerra sanguinosa, il conflitto senza fine, nascono appunto dalla volontà di non riconoscere le ragioni dell'altro. Per troppi, l'altro va annientato, polverizzato, distrutto, annichilito. Per costoro non ci sono altre legittime ragioni che le loro». Contro Peter Arrow che, per elogiare «Il campo della morte» di Bruno Grassi, ha parlato di «una nuova Guernica», il pittore italiano ha replicato duramente: «Gli uomini di cultura - ha detto - si pongono quasi sempre da eruditi davanti a un quadro. Cercano perciò la citazione che dovrebbe testimoniare la loro erudizione e che spesso invece li porta fuori dal seminato. Siccome nel mio quadro di sono dei cavalli e dei morti, Arrow parla di Guernica. Sarebbe come se, per ogni quadro dove c'è una donna che sorride enigmaticamente, si parlasse di Gioconda». In effetti, fra i due quadri, le differenze sono abissali. Nei protagonisti del quadro di Picasso (che, non dimentichiamolo, è il quadro di un militante) c'è sì la rabbia e la rivolta ma anche il proposito della rivincita. In quello di Grassi invece c'è l'impotenza. Le vittime di Guernica sono vittime militanti. Quelle di Grassi sono vittime innocenti, senza speranza di rifarsi, vittime finite all'improvviso sotto gli esplosivi o i cingoli dei combattenti. La violenza contro le due torri o contro le discoteche è una violenza cieca, che tira nel gruppo, una violenza che non fa differenze. Il suo scopo è quello di seminare la morte. Le vittime, ne «Il campo della morte», sono accatastate, abbandonate, ridotte a mera testimonianza dell'orrore. Anche i cavalli, qui, perdono il loro significato primordiale di figli del vento o di protagonisti delle battaglie per diventare animali folli che, avendo perso ogni punto di riferimento, o anche solo di dipendenza, fuggono per ogni dove. Persino i cani de «Il campo dela morte» sono disorientati. Leccano le ferite mortali con una ripetitività ossessiva. E il cane a destra, in basso nel quadro, sembra aver perso il suo carattere di cane e pare che stia metamorfizzandosi in una bestia feroce. E questo cane che, nella follia del mondo di oggi, sta perdendo la sua natura è forse anche la chiave di lettura del quadro. Un quadro disperato e disperante, quello di Grassi. Come lo sono i tempi che stiamo vivendo. «Un quadro - ha detto non a caso il critico Robert Polowsky - che rende palese il precipizio che l'umanità ha imboccato. Dopo aver visto 'Il campo della morte' non potremo più dire che non lo sapevamo».

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