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D'Annunzio all'amante dall'«ossatura musicale»

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EPISTOLARIO CON LUISA BACCARA

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«Mio Ariel caro». Queste sono alcune invocazioni epistolari, in verità alquanto banali, che si scambiarono nei lunghi anni d'amore Gabriele d'Annunzio e Luisa Baccara. Ora esse appaiono in un libro di lettere amabilmente curato da Paola Sorge, con un titolo un po' curioso: «Il Befano alla Befana». Lo ha pubblicato Garzanti al prezzo di 17 euro. «Smikrà»: una raffinatezza del poeta che ricorre a un vocabolo greco per dire a Luisa che a volte era la sua «Piccola» amica e altre volte la sua ardente «Rosafosca». Giovanni Comisso invece, che era con il Vate a Fiume, giudicava quella donna ben altrimenti, e cioè come «la Musa perversa che consuma il Comandante in estenuanti giochi d'amore». Comisso era ancor gentile con lei poiché da altri veniva ben più aspramente considerata, nientemeno come una spia di Nitti e perfino di Mussolini. Lo stesso d'Annunzio ne aveva un grave sospetto peraltro una volta aggravato da un'«assenza ingiustificata» dell'amante. Dunque: amante e spia, come nei più usuali romanzi d'appendice. E lei poteva essere considerata come un'appendice amorosa che il poeta non volle e non poté mai tagliare. Nel libro è raccolta un'incredibile quantità di lettere — ben 1780 — che andarono dal 1919 (Luisa era ventiseienne) all'anno della morte del poeta, il 1938. Ovviamente esse si mischiarono ad altre che d'Annunzio freneticamente inviava contemporaneamente ad altre amanti, come Barbara Leoni, tanto per fare un esempio. Non che negli ultimi anni, con le spese della Capponcina, il poeta se la passasse troppo bene. E giocava al lotto: avreste mai immaginato, voi, che un genio si sprecasse nel gioco del lotto? Eppure ciò avveniva. Più facile è forse pensare che, nel tentativo di trovare sempre nuove forze in tanta debolezza, si dedicasse all'assunzione della «polvere folle», più comunemente detta cocaina. Stava per partire alla conquista di Fiume — una breve e sfortunata impresa tanto da finire sotto le cannonate di Giolitti — quando alla «Casetta Rossa», sul Canal Grande di Venezia, accolse per la prima volta Luisa. Lo colpirono gli occhi scuri della ragazza, il suo sorriso lucente e al tempo stesso tanto malinconico quanto enigmatico. Lui, nel paragonarla alla Gioconda, aggiungeva altre descrizioni. Aveva il «viso ulivastro di piccola greca dell'Asia Minore», il naso «scendeva dritto ed esiguo come quello della Psiche di Napoli», la «capellatura, forte e arida doveva essere quella delle Tiadi furenti». La sua «ossatura era musicale come l'avesse congegnata un bonissimo liutaio; sembrava talvolta che i suoni fossero dati dai suoi nervi tesi e non dalle corde percosse». Il poeta non ebbe pace fino a quando non riuscì a invitare la giovane Luisa, che era una pianista, ad alcuni concerti nella «Casetta Rossa». L'evento si verificò per la prima volta il 20 di agosto del '19. Le inviò un biglietto: «La sera di musica è per domani giovedì. Spero che potrà venire per provare il pianoforte. Ho qualche cosa da dirLe per il concerto disegnato. Grazie di tanto dono musicale, amica dalle mani robuste e sicure, tregua alla mia tristezza. le mando un libretto che non è un tentativo di "Trattato d'Armonia"». Continuò a inviarle biglietti e doni, altri libri, monili i più disparati e fiori. Preparava l'impresa fiumana e scriveva a Luisa, in un insieme fremente. Ricordava come le «mani terribili» di lei «travolgessero la tastiera», e le scriveva di «aver lavorato per Fiume tutto il pomeriggio, angosciosamente». Smetteva perché gli occhi gli dolevano. «E mi fa male anche il cuore»: parole per prepararne altre, e arrivava alla stoccata sentimentale cui la pianista sarebbe stata particolarmente sensibile perché lui accennava alla sua arte adorata: «La musica sola sarebbe il mio balsamo stasera. Ma non oso chiederlo. È il novilunio». Questo stile amoroso ha forse fatto il suo tempo, non perché non si è un d'Annunzio, ma probabilmente soltanto per colpa di un piccolo, nuovissimo oggetto. Sì, avete indovinato: il telefonino. Chissà, il Vate, come lo

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