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Tredici storie ma è un romanzo

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Grandi uomini e illustri sconosciuti alla ribalta come in una messinscenaMendelssohn, Marx, Heine ma anche un ferroviere, uno scultore, un rabbino. L'assunto dell'autore: l'universo degli antenati è patrimonio prezioso e deve rivivere nell'oggi

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Tutto ciò accade in questa silloge dalla mitteleuropea titolazione, L'orologio di Monaco, con uno specifico richiamo ad alcune figure reali, grandi rivoluzionari, grandi rabbini, uomini dell'universo creativo, come possono essere stati Mendelssohn, Marx, Heine, sistemati accanto ad una sommessa e generica umanità di figure del quotidiano più umile e modesto che finiscono per costruire un edificio sul ripiano romanzesco, in grado di prospettare un forte e solido collante: sicché l'intero libro, pur ramificato in testi autonomi, presenta una sua fertile autonomia, che deve poi servire al lettore per non perdere mai di vista l'assunto fondamentale, un po' calviniano, per capirsi: l'universo dei nostri antenati rappresenta una ricchezza, un così fertile patrimonio, da consentire un acrobatico salto all'indietro fino a produrre una coesione globale fra grandi e piccoli artefici del grande disegno del mondo: «A quel punto, in un pigiamino azzurro, venne in cucina mio nipote — scrive Pressburger — e sorridendo mi tese una mela rossa. Improvvisamente vidi la fila di tutti gli antenati di quattro secoli, tutti simili tra loro, e simili, nelle fattezze, al ragazzino che mi stava davanti: mio nipote. Avvertii la tenacia della vita aggrappata alla terra, la sua capacità di propagarsi tra deserti, ghiacciai, montagne, oceani». Questo significativo brano, di cui lo scrittore si serve per definire, e determinare, lo status del personaggio, o meglio la sua potenzialità di raccordo fra passato e presente, disvela al contempo l'esigenza primaria di Pressburger, all'interno di una tematica marcatamente mitteleuropea, di obbedire ad una risolutezza che lo conduce fatalmente all'essenziale della descrizione, sì che il lettore abbia chiara la temperie, pur senza il supporto di un eccesso di descrittività. Questa strategia si avverte in modo particolare al cospetto, come si diceva, di personaggi che appartengono alla storia, in modo da ridisegnarli prima di affidarli al vitale di ogni giorno, lungo un duplice processo di ingigantimento del misero e di rimpicciolimento del grande di pascoliana memoria, con le ovvie e debite differenze, è chiaro. Accade così che la lunga linea grigia della gente «prona alla vita», massacrata più che sorretta dal peso di bellissime e dure avventure alle spalle, va a confondersi, e individuarsi, nel gruppo emergente, perché «tutte le vite, piccole e grandi, sono intrecciate l'una con l'altra». Allora, illustri avi paiono cedere il proprio blasone, il simbolo del comando e del potere, per accostarsi il più possibile, fino a immedesimarsi nelle figurine ingoiate dall'immemoria, da un oblio così pesante e impenetrabile da cancellarne l'identikit: è una schiera folta questa delle vittime dell'anonimato, che sono poi quelli che pagano il prezzo più alto della Storia che li ignora, mentre possono solo emergere e ingigantirsi fra le pieghe di un libro, pagina dopo pagina: il rabbino di Cifer, che ha stabilito un duro patto con Dio, il macchinista ferroviere zio Paolo, scultore e appassionato e comunista incorreggibile fino alle estreme conseguenze, con un solo compromesso a suo carico, quello sull'arte, lo zio Francesco infine, morfinomane un po' mondano, uomo di un'epoca trapassata, quella degli anni Trenta al Caffé New York, il fiore all'o

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