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Da Calvi a Gelli, gli 8 milioni «negati» ai piccoli azionisti

2001N__WEB

Crac Ambrosiano La battaglia dei risarcimenti e il conto svizzero intestato al Gran Maestro

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La morte del “venerabile” Licio Gelli riporta a galla, inevitabilmente, il crac del Banco Ambrosiano, ma fa riemergere anche, proprio in tempi di scandali bancari e di investitori che si sono visti azzerare i loro gruzzoletti dalla sera alla mattina, la storia degli 8,5 milioni di dollari sequestrati in Svizzera proprio al Gran Maestro della P2 e mai tornati, nonostante i pronunciamenti giudiziari, nella tasche dei piccoli azionisti dell'Ambrosiano, rimasti, a distanza di vent'anni, con un pugno di mosche, al contrario dei creditori esteri a cui quei soldi vennero, allora, misteriosamente assegnati. Che fine abbiano fatto, negli anni, quegli 8,5 milioni, depositati sul conto 525779-XI Ubs di Ginevra intestato a Gelli, nessuno lo sa. Nemmeno l'avvocato Gianfranco Lenzini, che ha a lungo difeso le ragioni degli stessi azionisti. I motivi per cui quei soldi non arrivarono mai nella mani degli azionisti sono chiare. Innanzitutto perché le autorità elvetiche, che su iniziativa dei pm di Milano sequestrarono il conto del «venerabile», pur ricevendo indicazioni precise su chi ne dovesse beneficiare, ignorarono le direttive italiane e girarono gli 8,5 milioni alle banche creditrici estere; in secondo luogo perché altri magistrati milanesi, decidendo all'opposto dei colleghi, stabilirono che la proprietà di quella somma era estera. D'altronde, al momento del contenzioso con la Svizzera, le lettere con le quali i giudici italiani imponevano alle autorità elvetiche di rimborsare gli azionisti italiani sparirono dagli archivi del tribunale. L'inizio di questa disavventura porta la data del 2000, quando l'avvocato Lenzini querelò Gelli, l'ex governatore di Bankitalia Antonio Fazio e il liquidatore dell'Ambrosiano Lanfranco Gerini, poi defunto. La pratica, che approdò sulla scrivania del pm Francesco Greco, si soffermava in particolare sull'ipotesi di bancarotta post-fallimento, in danno proprio degli investitori italiani, per una spartizione di fondi, decisa con l'assenso della Banca d'Italia nel 1996 a Lugano, fra la Liquidazione del Banco Ambrosiano, lo stesso «venerabile» e le banche consociate estere con l'allora istituto di credito di Roberto Calvi. Spartizione top secret riguardante, però, 100 milioni di dollari di fondi di Gelli e non gli 8,5 sequestrati dalla polizia svizzera. Somma che, in base alla decisione presa nel giugno del 1996 dalla seconda sezione della Corte d'Appello di Milano, a cui la Procura generale non fece opposizione, doveva essere restituita alle parti civili del processo d'appello, cioè gli azionisti. Ma le cose andarono diversamente. Quell'assegnazione, infatti, non ci fu mai, perché l'Ufficio federale di polizia di Berna girò i soldi alle banche consociate estere «conformemente – spiegarono le autorità svizzere - alla decisione del tribunale cantonale di Lugano», che in realtà faceva riferimento ai 100 milioni, non agli 8,5. C'è di più. La decisione del tribunale di Lugano, infatti, prevedeva che l'intera somma fosse devoluta a favore delle liquidazioni delle filiali del Banco Ambrosiano (Andino, di Managua e Oversee Limited), ma anche in questo caso le cose andarono diversamente, perché venne fuori che anche l'ultima parte del tesoro di Gelli era stato suddiviso secondo i criteri della transazione segreta di Lugano: il 55 per cento alle banche consociate estere e il 45 alla Liquidazione del Banco Ambrosiano. Sta di fatto che, pur legittimati a incassare gli otto milioni e mezzo, i creditori italiani restarono a mani vuote. Uno dei motivi, come accennato, è che le missive inviate in Svizzera sia dai giudici italiani che dalla nostra ambasciata a Berna svanirono nel nulla. I legali dei legittimi creditori fecero di tutto per ottenere quei soldi, avviando anche tre incidenti di esecuzione, tutti rigettati dal procuratore generale, il quale stabilì la legittimità della restituzione degli 8 milioni e mezzo di dollari alle banche estere quale parte dei 100 milioni. Una sconfessione totale, di fatto, dei colleghi che non si opposero alla decisione dei giudici di consegnare l'intera somma ai piccoli azionisti. Il procedimento da loro intentato per rivalersi venne archiviato nel 2010 su proposta del pm Greco. «Con una motivazione – disse allora l'avvocato Lenzini - ricopiata dal Gip nel provvedimento che accoglie la richiesta medesima. Le indagini, di fatto, non sono mai state svolte. Fazio, Gelli, nessuno è stato mai interrogato». Tanto che gli investitori fregati denunciarono il magistrato, ma il procedimento venne archiviato dalla procura di Brescia. Le successive iniziative del pool di avvocati degli azionisti defraudati non hanno portato a nulla. Raggiunto al telefono dal Tempo, l'avvocato Lenzini afferma rassegnato: «Gli 8,5 milioni di dollari? Ancora oggi non si sa a chi siano finiti. Dovevano essere dissequestrati, ma non intervenne nessun provvedimento. Gli azionisti sono stati risarciti, ma solo in piccolissima parte, da Gelli e dagli altri 32 imputati. Dei circa 20 miliardi di vecchie lire, infatti, hanno incassato solo il 20 per cento. E il “venerabile” è stato quello che ha contribuito di più al risarcimento». La storia degli 8,5 milioni di dollari dell'Ambrosiano, però, porta a rammentare anche l'informativa, depositata agli atti del processo d'appello sulla bancarotta dell'istituto di credito, sul blitz che l'allora pm Antonio Di Pietro fece nel 1984 alle Seychelles, allo scopo di catturare il faccendiere Francesco Pazienza. Quel rapporto, cui fa chiaro riferimento proprio la sentenza sul Banco, in passato attirò l'attenzione dell'avvocato Lenzini, che più e più volte si recò in archivio per averne copia. Inutilmente. Il documento sull'attività di Di Pietro nell'isola dell'oceano Indiano, infatti, gli venne negato. Il legale non era interessato al pm, ma cercava semplicemente di entrare in possesso di tutti faldoni del processo sul crac, custoditi all'archivio centrale del Tribunale di Milano, allo scopo di utilizzarli per le cause civili da intentare in nome dei «suoi» azionisti. Quelle carte, infatti, erano indispensabili per ricostruire alcune particolari vicende e, dunque, necessarie per avviare le richieste di risarcimento danni. Ma quando il legale, avendo in mano il numero preciso del faldone in quanto citato nella sentenza sulla bancarotta dell'Ambrosiano, si recò in archivio per ottenerle, si trovò ad affrontare una trafila burocratica mai vista prima nella sua carriera. L'avvocato venne spedito di ufficio in ufficio, finché ottenne una risposta direttamente dal presidente del Tribunale, e cioè che lui, che pure aveva partecipato ai processi sul crac dell'Ambrosiano, non era legittimato a chiederne copia.

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