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Abbiamo visto i fantasmi

forze speciali

Per la prima volta apre la base segreta delle Forze Speciali dell'Esercito. In esclusiva Il Tempo vi racconta come si preparano ai blitz impossibili

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dagli inviati   PISA La regola è il silenzio. Nessun rumore. Se non quello della pioggia battente che trasforma una giornata di luglio in un anticipo di autunno. Più in là, il mare è in tempesta. I dieci uomini armati che si muovono come anguille e strisciano a pelo d'acqua sono «fantasmi». Neri, come la notte. Invisibili e silenti. Il segreto, in fondo, è tutto qui. Per arrivare dove nessun altro si spingerebbe. Per salvare la propria vita e quella degli altri in ogni angolo del mondo, serve rapidità, ma senza farsi scoprire, senza farsi vedere, spettri scuri che si mimetizzano nel buio. Per questo si addestrano notte e giorno lontano da occhi indiscreti. Provando e riprovando movimenti e tecniche che, in qualsiasi momento, anche nei prossimi cinque minuti, potrebbero essere applicati sul campo. Poco importa che ci si trovi alla foce dell'Arno, in un deserto afghano o nel centro di una grande e popolosa città. Oggi le minacce per la sicurezza sono diventate «asimmetriche», «ibride». Il nemico combatte senza uniforme, non segue strategie consolidate, non esistono scenari prestabiliti. E la risposta deve essere adeguata. Per questo è nato il «Comfose», il comando da poco unificato delle «forze speciali» dell'Esercito che fa capo al generale Nicola Zanelli. Sono il corrispondente italiano dei Seals e dei Delta statunitensi, per capirci. Per la prima volta hanno aperto le porte ai giornalisti. E noi de Il Tempo abbiamo trascorso con loro una giornata intera, sfrecciando su onde alte quasi due metri a bordo di «supergommoni» da 800 cavalli, scivolando lungo le corde calate da un elicottero in hovering a venti metri, osservandoli mentre si gettavano tra in mare con zaini pesantissimi, sofisticate apparecchiature per respirare sott'acqua (senza fare rumore e bollicine), armi all'avanguardia, fra cui l'efficiente fucile mitragliatore Mp5 (Maschinenpistole 5), la Glock 17 calibro 9, la Beretta 92, il fucile a pompa e il «cornershot», un fucile che sulla canna girevole ha montata una pistola ed è dotato di telecamera e monitor in grado di sparare al riparo di un muro. Lo abbiamo fatto anche noi. Raffiche e colpi singoli contro bersagli fissi. Li abbiamo osservati, efficienti e chirurgici, mentre simulavano la liberazione di un ostaggio dopo aver fatto saltare la porta della prigione con una piccola carica di Semtex e aver eliminato sbrigativamente i terroristi-carcerieri. I ragazzi delle «forze speciali» sono uomini normali all'apparenza, in realtà iper-specializzati e pronti a tutto quando la pressione ti pulsa il sangue al cervello e la morte può esser dietro l'angolo. Ma non chiamateli «Rambo», non gradirebbero. Anche se l'impressione, dopo 24 ore al loro fianco, è che non conoscano il significato della parola «impossibile».   LA STORIA È il generale Zanelli a spiegarci, accogliendoci presso la sede segreta del Comfose, il senso di questa «rivoluzione»: «Il Comando delle Forze Speciali dell'Esercito nasce il 1° settembre del 2013 per volere del Capo di Stato maggiore dell'Esercito generale Claudio Graziano che, con lungimiranza, si è allineato alle decisioni dei Paesi occidentali di incrementare le capacità dei reparti per le operazioni speciali». Ecco allora l'unificazione, sotto un unico comando delle eccellenze militari italiane: il 9° Reggimento d'assalto Col Moschin, del 4° Monte Cervino (alpini paracadutisti), del 28° Pavia (dedicato alle comunicazioni operative) e del 185° R.R.A.O. (Reggimento ricognizione acquisizione obiettivi). In arrivo anche il R.E.O.S. (Reparto elicotteri per operazioni speciali). Perché questa decisione? «Il vantaggio dell'unificazione - prosegue Zanelli - è la drastica riduzione della catena di comando e controllo. Questo, rispetto a prima, ci consente di affrontare qualsiasi problematica, anche la più complicata dall'altra parte del mondo, in tempi brevissimi».     COL FIATO SOSPESO Terminato il briefing di presentazione, si parte. Il motto del R.R.A.O. è Videre nec videri, vedere senza essere visti. Ma per questa giornata faranno un'eccezione solo per Il Tempo. Accetteranno di rispondere alle nostre domande, di farsi scrutare da vicino. Senza segreti. O quasi. Il diluvio che ci accompagna dalla mattina cresce d'intensità con il passare delle ore. E cresce anche l'adrenalina. Non bastano secchiate di pioggia a scoraggiare i militari pronti nella Base addestramento incursori di Pisa. Siamo alla foce dell'Arno, nel parco regionale di San Rossore. Basta un rapido sguardo e si parte, anche se l'abbigliamento (il nostro) non è all'altezza. Ci fanno indossare cerate nere spesse un centimetro, totalmente impermeabili. Saliamo su gommoni al di là di ogni immaginazione. Fuori diluvia, fulmini, mare più che mosso. «Le condizioni ideali» butta lì il pilota. Non sappiamo cosa aspettarci. Saliamo su un Rigid inflatable boat (Rib), ovvero un battello gommato semirigido che, per le sue caratteristiche, raggiunge velocità da off shore. Ottocento cavalli per dieci militari in assetto da combattimento e tre giornalisti terrorizzati. Risaliamo l'Arno. L'impressione è di trovarsi sul set di un film di guerra col commando pronto a entrare in azione. Si infilano in acqua silenziosi (è giorno, ma questa parte dell'operazione dovrebbe svolgersi nelle tenebre) e si trascinano appresso una voluminosa e pesante attrezzatura in contenitori stagni. Raggiungono la riva aiutandosi con dei piccoli «maiali» motorizzati ad elica (avete presente 007 Operazione tuono?), anche questi silenziosissimi. Il loro compito è anzitutto quello di raccogliere il numero maggiore di informazioni sull'obiettivo. Dove si trova il nemico, in che modo è organizzato. Ogni membro del commando ha il suo compito. Find, fix, exploit è la «scaletta» che caratterizza i loro fulminei e imprevedibili blitz: trovare il nemico, bloccarlo sul posto, negargli libertà di manovra e di comunicazione. E, infine, neutralizzarlo.     IN VOLO SULL'ACQUA Un rapido cenno d'intesa e il «pilota» lascia i compagni a mollo e ci proietta in mare aperto. Onde alte quasi due metri. Una piccola imbarcazione ospita due sub davvero «speciali». Scendono in acqua. E scompaiono. Letteralmente. Utilizzano bussole sensibili e autorespiratori impensabili solo pochi anni fa. Nel frattempo, davanti a un monitor all'interno della base, c'è chi riceve video e informazioni in diretta. Videre nec videri. Noi non li vediamo, loro vedono noi. Giusto il tempo di immobilizzarci al sedile del gommone e ci ritroviamo a planare a 45 nodi. Una follia. Le onde fanno da trampolino. Ogni volo è un decollo, ogni atterraggio una botta micidiale, lo stomaco stretto in una morsa. Loro sorridono contenti, come se fossero al luna park. Chi scrive per poco non vomita.   FAST ROPE Finita la «gita» mozzafiato, ci spostiamo sulla terraferma. Un elicottero è sospeso in aria a circa 15-20 metri dal terreno. Le eliche schiacciano l'erba e ti impediscono di stare in piedi. Dal velivolo calano il «canapone», una corda spessa quanto un tubo innocentI, lungo la quale scivola il primo uomo con passamontagna, armamento, tuta blu. Non ha imbracatura, si regge solo con le mani e i piedi. Appena toccato il suolo, il militare tende la corda per facilitare la discesa dei suoi compagni (in questo caso, il riferimento cinematografico è Black Hawk Down, il film sull'intervento Usa a Mogadiscio), che scendono velocissimi lungo la corda per poi posizionarsi subito in formazione da combattimento. La tecnica, non per niente, si chiama Fast Rope (corda veloce) e viene utilizzata per aviotrasportare i commandos, in tempi rapidissimi, in zone di conflitto impossibili da raggiungere altrimenti.     IL GRAPPOLO Ci chiediamo come torneranno indietro. La risposta arriva poco dopo: un altro elicottero, altri otto «fantasmi» ad attendere sul prato. Il solito canapone viene calato e i «magnifici otto» si agganciano alla fune e vengono sollevati in aria. Quindi l'elicottero prende quota e si allontana, trascinandoli così, appesi nel vuoto, ciondolanti a cento metri dallo specchio di mare sottostante.     OSTAGGIO LIBERO L'ultimo «atto» della giornata di addestramento è la liberazione di un ostaggio che i terroristi tengono prigioniero in un'abitazione. Gli uomini delle forze speciali eliminano i due «nemici» di guardia all'esterno, fanno saltare la porta della «prigione» con una carica di plastico, neutralizzano altri due carcerieri all'interno del locale e «mettono in sicurezza» il fortunato ostaggio. Un boato pazzesco. La porta che salta, il blitz, la liberazione, il prigioniero in salvo. Tutto in una manciata di minuti. Loro vivono così, veloci e silenti. Ogni giorno, tutto l'anno. In addestramento come nella realtà che nessuno conoscerà mai perché ogni loro intervento è segreto, segretissimo. Missione conclusa. Si torna a casa.

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