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Terrorismo, i baby jihadisti amano la violenza e progettano attentati online: il reportage

Francesca Musacchio
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Non più il lupo solitario, ma gruppi informali di giovani radicalizzati che si autoindottrinano online. È la nuova frontiera del terrorismo jihadista secondo Lucio Pifferi, direttore centrale della Polizia di prevenzione, che in un colloquio con Il Tempo, in occasione del 173° anniversario della Polizia di Stato che si celebra oggi, spiega come il fenomeno oggi si è evoluto. «Non parliamo più solo del lupo solitario, cioè del soggetto che si radicalizza in modo isolato e poi agisce da solo. Stiamo assistendo alla nascita di una forma più strutturata, che potremmo definire gruppi di lupi solitari. La propaganda si è raffinata. Oggi punta a individuare soggetti particolarmente abili nel recepire, rielaborare e a loro volta diffondere messaggi di radicalizzazione. Questi diventano dei veri e propri capibranco digitali: influenzano altri, si mettono in relazione con loro e li istigano a vicenda. Non hanno legami personali, vivono in Paesi diversi, ma si ritrovano in gruppi e chat. È una rete fluida, decentralizzata, dove i membri si stimolano reciprocamente all’azione». E i messaggi jihadisti sono sempre più chiari con effetti in Europa e negli Stati Uniti. I destinatari di questa propaganda sono i più giovani. «Parliamo di ragazzini di 15 o 16 anni - riprende l’esperto - che si trovano in Italia, negli Stati Uniti, in Canada, in Europa». Uno posta un messaggio: «Io domani faccio un attacco». L’altro risponde: «Esci anche tu, sali sul primo autobus e colpisci chi ti trovi davanti. È una dinamica di radicalizzazione che si alimenta tra pari, senza che l’organizzazione madre debba intervenire direttamente. Si appoggia a nodi intermedi, disseminati nel web, che fungono da moltiplicatori del messaggio».

Pifferi però tiene a sottolineare che «questi soggetti non sempre passano all’azione, ma vivono in una bolla dove la violenza è normalizzata. In Italia abbiamo intercettato molte di queste dinamiche. Solo nell’ultimo anno abbiamo eseguito circa 50 perquisizioni legate a questi fenomeni. Spesso si tratta di ragazzi giovanissimi, con ideologie ibride: jihadismo, suprematismo bianco, neonazismo. Nei loro device si trovano contenuti violenti, gore, simboli intercambiabili. Oggi mettono una bandiera jihadista, domani una neonazista». Ma il tratto comune è solo uno: la «fascinazione per la violenza, fine a se stessa. Ed è una violenza che ha quasi sempre un fondo di antisemitismo. Non importa quale sia l’etichetta ideologica: ciò che conta è l’azione, il gesto spettacolare, la rottura delle regole. Questo fenomeno si sta diffondendo in modo omogeneo in tutto l’Occidente. È una forma di ibridazione della minaccia che dobbiamo studiare a fondo, perché il rischio non è solo teorico: è operativo».

Ma l’Italia deve fare i conti anche con un altro problema: la rinascita dell’eversione interna, che trova il suo apice nel mondo anarco-insurrezionalista. «Stiamo assistendo a un attivismo piuttosto rilevante della galassia», chiarisce Pifferi, con «attacchi solitamente incendiari, compiuti da piccoli nuclei e con una certa facilità di esecuzione». L’ultimo, in ordine di tempo, è quello che ha distrutto 17 Tesla in una concessionaria alla periferia di Roma. Ma manca la rivendicazione. Quindi, per ora, Pifferi non lo include tra gli attacchi attribuiti agli anarchici. «La rivendicazione è un elemento importante in questo ambito, perché qualifica politicamente il gesto e ne attribuisce una paternità, non personale ma di organizzazione. Abbiamo però visto episodi con la stessa tecnica contro le Ferrovie». La minaccia anarchica ha avuto una sua rinascita con la vicenda di Alfredo Cospito, ristretto al 41 bis. «La campagna Cospito ha permesso di rinsaldare le fila, di trovare argomenti forti, con la messa in gioco persino della propria vita: ha voluto fare quasi il martire». Poi sono emerse altre realtà che hanno ripescato temi facili da cavalcare per questa ideologia: l’antimilitarismo e la protesta contro la repressione, che ha trovato il suo simbolo nei decreti sicurezza del governo. «Tutti argomenti che alimentano la narrativa, quindi la propaganda e l’azione di queste compagini attualmente molto attive».

Anche la comparsa del Nuovo Partito Comunista, con le sue liste di proscrizione di agenti sionisti, rientra in questo contesto. «Al di là del nome, che non voglio criminalizzare - Partito Comunista e la sua storia appartengono a un altro piano - chi oggi utilizza questa sigla sembra più che altro costituire un grande contenitore. Da un lato raccoglie rabbia e posizioni ideologiche molto marcate; dall’altro, elabora e diffonde veri e propri elenchi di obiettivi. Si è parlato molto di questo gruppo in relazione all’antisionismo, che è stato il pretesto per una propaganda molto aggressiva, ma non si tratta solo di questo: siamo al limite dell’antisemitismo. In alcuni messaggi si lancia addirittura un appello a segnalare, territorio per territorio, chi siano i 'collaborazionisti'. È evidente che non si tratta di un’organizzazione con struttura operativa, ma il contenuto resta pericoloso: è un’istigazione, con un forte potere intimidatorio».

L’attenzione, dunque, rimane alta. Pifferi spiega che in Italia esistono strumenti di prevenzione molto importanti, come il Casa, il Comitato di Analisi Strategica Antiterrorismo, di cui è presidente. Lo definisce un tavolo strategico fondamentale per lo scambio di informazioni tra intelligence, forze di polizia, autorità giudiziaria e procura nazionale anti terrorismo essenziale per prevenire e, per quanto possibile, ridurre il rischio. Come nel caso di Isis-k, ramo afghano del gruppo terroristico che oggi é «la minaccia strutturata più concreta» ricorda il dirigente perché «è la componente combattente più attiva nel panorama jihadista, quella che continua a elaborare progettualità offensive contro l’Occidente». Nell’ultima relazione dell’intelligence è stata segnalata la possibile infiltrazione di soggetti legati a Isis K nell’area Schengen. Si è ipotizzato che siano entrati attraverso i Balcani, «ma non possiamo limitarci a quella rotta; molti foreign fighters sono tornati nei Paesi d’origine, anche in Nord Africa. Dunque l’attenzione deve rimanere alta su tutte le frontiere».

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