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Covid, l'accusa dei giudici: "Conte e Speranza potevano evitare 4000 morti"

Christian Campigli
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Un'inchiesta che potrebbe riscrivere la storia d'Italia degli ultimi tre anni. Di quei giorni, quelle interminabili settimane nelle quali si contavano i morti e si aveva paura persino ad abbracciare un parente. Un'indagine, quella sulla gestione del Covid condotta dalla procura bergamasca, che sta evidenziando responsabilità, torti e scelte rivelatesi poi sbagliate nella migliore delle ipotesi, scellerate volendo osservare la parte mezza vuota del famigerato bicchiere. Perché con altre modalità, scrivono i giudici, si sarebbero potuti evitare 4000 morti. Quattromilacentoquarantotto per l’esattezza.

È un quadro inquietante quello che sta emergendo dalle prime indiscrezioni sulle settimane che precedettero il lockdown. I magistrati hanno concentrato gli sforzi investigativi sull'arco temporale che va tra la fine di febbraio e l'inizio di aprile del 2010. Nella provincia di Bergamo, in particolar modo, la zona dello Stivale maggiormente colpita con oltre seimila morti in più rispetto alla media dell'anno precedente. Un autentico strazio. Fino ad oggi valutato come la più terribile conseguenza del Covid. Fino ad oggi, appunto. Diciannove, per adesso, gli indagati per epidemia colposa: tra questi spiccano i nome dell'ex premier Giuseppe Conte, dell'ex Ministro della Salute Roberto Speranza, del governatore della Lombardia Attilio Fontana e dell'ex assessore della sanità lombardo Giulio Gallera.

Leggendo con attenzione le carte, si scopre che i magistrati hanno contestato numerosi reati, oltre appunto all'epidemia colposa aggravata. Si va dall'omicidio colposo plurimo al rifiuto di atti di ufficio e anche al falso. Sotto la lente di ingrandimento sono finiti anche il presidente dell'Istituto superiore di Sanità Silvio Brusaferro, il presidente del Consiglio superiore di Sanità Franco Locatelli, il coordinatore dell'allora Comitato Scientifico Agostino Miozzo, l'ex capo della protezione civile Angelo Borrelli e tra i tecnici del ministero della salute l'ex dirigente Francesco Maraglino. Un lavoro corposo, denso di insidie e di difficoltà.

Ecco che allora le 35 pagine, approdo di un’inchiesta durata tre anni, restituiscono affermazioni come quella che accusa l’ex premier Giuseppe Conte e il ministro Roberto Speranza di aver «cagionato per colpa» la morte di una cinquantina di persone. Con l’attuale leader dei 5 Stelle che «nelle riunioni del 29 febbraio e 1 marzo 2020, con i componenti del Cts», si sarebbe «limitato a proporre misure meramente integrative senza prospettare di estendere la zona rossa ai comuni della Val Seriana nonostante l’ulteriore incremento del contagio in Lombardia» e «l’accertamento delle condizioni che corrispondevano allo scenario più catastrofico». E un passaggio che ritrae il presidente Attilio Fontana come incapace di aver protetto i suoi cittadini perchè in due mail del 27 e 28 febbraio 2020 «chiese il mantenimento delle misure vigenti non segnalando le criticità relative alla diffusione del contagio in Val Seriana, inclusi Nembro e Alzano Lombardo» nonostante l’indicatore R0 segnalasse che ogni infetto ne contagiava altri due.

Per la Procura, D’Amario, Brusaferro e il capo della Protezione Civile, Angelo Borrelli, insieme al direttore generale della sanità lombarda Luigi Cajazza e a Gallera «rifiutavano di attuare le prescrizioni del Piano per una pandemia influenzale». Già a partire dal 28 febbraio 2020 il primo Comitato tecnico scientifico era a conoscenza dello «scenario più catastrofico per l’impatto sul sistema sanitario e sull’occupazione delle terapie intensive» in Lombardia dovuto alla diffusione del Covid, scrivono i magistrati.

Nonostante questo, secondo i pm orobici, componenti del Comitato tecnico scientifico, tra cui Silvio Brusaferro, Franco Locatelli e Agostino Miozzo, non proposero «l’estensione delle misure previste per la cosiddetta zona rossa ai comuni della Val Seriana, inclusi i comuni di Alzano Lombardo e Nembro». Un «no» che arrivò nel corso della riunione del Cts del 27 febbraio 2020, nonostante «avessero ricevuto un rapporto aggiornato dei casi totali registrati a quella data in Lombardia pari a 401, con un incremento giornaliero, nel corso dei 5 giorni precedenti, di circa il 30%» mentre il giorno successivo si sarebbero limitati a proporre, «esclusivamente misure integrative» (tra le altre, sospensione degli eventi e delle manifestazioni sportive, chiusura dei servizi educativi dell’infanzia e delle scuole di ogni ordine o grado) «senza, invece, proporre l’estensione delle misure previste per la cosiddetta zona rossa ai comuni della Val Seriana», inclusi i comuni di Alzano Lombardo e Nembro», nonostante a quella data il Cts «fosse a conoscenza del numero di casi (531) registrati sino a quel momento nella Regione Lombardia e del relativo incremento rispetto ai giorni precedenti, e nonostante avessero a disposizione tutti i dati per stabilire che in Lombardia si sarebbe raggiunto il numero di 1000 casi dopo solo 8 giorni dall’accertamento del primo caso e che quindi bisognasse tempestivamente estendere anche ad altre zone le misure di distanziamento sociale della zona rossa».

Un no alla chiusura che, per la procura, ha determinato una diffusione incontrollata del Covid e un’impennata dei morti. Ma tanti altri argini si sarebbero potuti levare, secondo i pm. Dalla verifica della dotazione di guanti, mascherine e tutto quello che avrebbe potuto proteggere, al mancato censimento dei posti letto negli ospedali e dei ventilatori polmonari, ai piani di esercitazione dei sanitari mai fatti, ai deficitari protocolli di sorveglianza sui viaggiatori che arrivavano in Italia facendo degli scali.

Infine, l’indagine torna al punto zero dove venne registrato il primo caso di Covid nella provincia. Era il 23 febbraio, il «Pesenti Fenaroli» venne riaperto poche ore dopo. A Giuseppe Marzulli, dirigente medico e Francesco Locati e Roberto Cosentina, entrambi dell’ASST Bergamo est, vengono contestati i reati di epidemia e omicidio colposo perché, tra le altre cose, non fornirono dispositivi di protezione provocando «un incremento non inferiore al contagio di 35 operatori sanitari». Locati è indagato anche per falso perché scrisse che «erano stati fatti tamponi a tutti i sanitari» sin dal 23 febbraio; stessa ipotesi per Massimo Giupponi che, in qualità di direttore generale dell’Ats di Bergamo, avrebbe certificato che erano state create «aree di isolamento per i pazienti che accedevano al pronto soccorso con sintomi sospetti».

I pazienti sarebbero invece rimasti per «diversi giorni» in attesa. Come scritto nella nota dal procuratore Chiappani, l’atto di chiusura delle indagini «non è un atto d’accusa» ma «una ricostruzione dei fatti» che lascia comunque aperte ampie posssibilità di difesa per gli indagati visti anche i precedenti sulla pandemia in altri tribunali.

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