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Il "green" della Ue azzoppa l'Italia. Rivolta delle imprese sulle regole per gli imballaggi

Carlantonio Solimene
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Una questione di metodo e una di merito. Sono due gli aspetti che in Italia fanno maggiormente discutere riguardo la proposta di regolamento formulata dalla Commissione europea sugli imballaggi. Dal punto di vista del metodo, il «regolamento»- che deve ancora passare il vaglio del Consiglio europeo (con i vari capi di governo) e poi quello dell'Europarlamento- è immediatamente applicativo, a differenza delle «direttive» che danno due annidi tempo ai vari Stati membri per essere recepite e consentono correttivi per l'«adeguamento» ai sistemi legislativi nazionali.
I problemi maggiori, però, sono sul fronte del merito. Perché la proposta punta a incentivare il più possibile il «riuso» a discapito del «riciclo». Settore, quest' ultimo, in cui l'Italia è leader, essendosi adeguata agli standard europei ben prima delle scadenze previste. Sintetizzando, l'Ue vuole ridurre i rifiuti degli imballaggi.

Per riuscirci punta sul taglio del packaging inutile ed eccessivo ma soprattuto favorisce di più il riutilizzo con deposito e vuoto a rendere. Il macro-obiettivo è ridurre i rifiuti degli imballaggi del 37% entro il 2040, con un riciclo effettivo totale del 100% del packaging già entro il 2030.

In particolare entro il 2030 il 20% ed entro il 2040 l'80% delle bevande fredde e calde (non alcoliche) dovrà essere servito in un contenitore riutilizzabile, o consentire ai consumatori di essere serviti con il proprio contenitore. La Commissione vuole anche vietare gli «imballaggi chiaramente non necessari», come i contenitori monouso per alimenti e bevande consumati all'interno di ristoranti e caffetterie, frutta e verdura o bottiglie e barattoli in miniatura come quelli utilizzati negli hotel. Addio quindi, ad esempio, alle bustine da zucchero nei bar e ai flaconcini di shampoo.
Conoscendo le perplessità di Roma, nel presentare la proposta di regolamento il vicepresidente della Commissione Franz Timmermans ha parlato in italiano sostenendo che «non c'è competizione fra i due approcci, il riciclo e il riutilizzo».

«Abbiamo bisogno di entrambi gli strumenti come abbiamo bisogno di più impianti per il trattamento dei rifiuti. Nessuno vuole mettere fine alle pratiche di riciclo che funzionano bene o mettere in pericolo gli investimenti sottostanti» la conclusione. Parole che, però, non hanno tranquillizzato gli operatori del settore. Negli scorsi mesi, nel commentare le prime indiscrezioni, Confindustria aveva stimato che in Italia, a causa della stretta Ue, sarebbero state a rischio 700mila imprese e sei milioni di occupati. Nel frattempo il regolamento è stato ammorbidito e alcune scadenze posticipate, mala sostanza cambia poco. Da mercoledì sono in corso le audizioni alla Camera delle società leader del settore e tutte si sono espresse in modo critico. Assorimap (Associazione nazionale delle imprese che riciclano materie plastiche) ha chiesto al governo un intervento per ottenere una «maggiore gradualità negli adempimenti».

Conai (Consorzio Nazionale Imballaggi) ha criticato l'incoraggiamento al deposito cauzionale perché «rappresenterebbe una duplicazione inutile di costi economici e ambientali: andrebbe ad affiancarsi, senza sostituirsi in tutto, alle raccolte differenziate tradizionali». Confagricoltura ha puntato il dito contro «l'aumento dei costi che inevitabilmente la ricerca di materiali alternativi (con le alte percentuali di riciclato richiesto) a quelli che vengono banditi, genererà». Antonio D'Amato, ex presidente di Confindustria e ora a capo del Gruppo Seda e fondatore di Eppa (European Paper Packaging Alliance) ha messo in dubbio tout court l'opportunità di una guerra agli imballaggi: «È grazie all'imballaggio - ha spiegato - che gli alimenti vivono più a lungo e vengono sprecati meno. E lo spreco alimentare vale il 30% della produzione alimentare del pianeta ed equivale al 10% delle emissioni di CO2 a livello globale». Il rischio, insomma, è la più classica delle eterogenesi dei fini. La partita, come detto, è ancora aperta. I precedenti, dal divieto della plastica monouso o delle auto a benzina dal 2035 insegnano però che contrapporsi ai dogmi del nuovo «green deal» europeo è tutt' altro che facile.

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