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L'Europa se ne frega, nessun aiuto all'Italia sulla redistribuzione dei migranti

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L'accordo tra gli Stati prevede che l'accoglienza di chi arriva in Italia sia su base volontaria

Francesca Musacchio
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Nonostante il flusso di migranti sulle coste italiane sia aumentato notevolmente, le politiche dell'Unione Europea non cambiano. Al momento, infatti, non ci sarebbe nulla di nuovo sul tavolo per quanto riguarda la gestione dei flussi nel Mediterraneo centrale e neanche sulla redistribuzione. Quest'ultima rimane su base volontaria. Quindi, ogni Stato membro può decidere se e quanti migranti accogliere tra quelli arrivati in Italia. Ancora attivi anche gli accordi di Dublino che impongono la richiesta d'asilo nel Paese di primo ingresso.

 

I primi di agosto, il ministro dell'Interno, Luciana Lamorgese, ha però accolto con favore l'operatività della «piattaforma, predisposta dalla Commissione europea, attraverso la quale gli Stati membri ed associati alla Ue confermano il proprio impegno di ricollocazione dei migranti». Ma l'accordo prevede «il ricollocamento annuo di circa 10 mila migranti, individuati principalmente tra le persone salvate in mare a seguito di operazioni Sar nel Mediterraneo centrale e lungo la rotta atlantica occidentale e poi sbarcate negli Stati membri di primo ingresso dell'Unione». Un numero esiguo se si considera che in Italia, solo nei primi 8 mesi di quest' anno, sono arrivate già 53.124 persone.

 

Ma non solo. Tra i 18 Stati membri (Belgio, Bulgaria, Cipro, Croazia, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Irlanda, Italia, Lituania, Lussemburgo, Malta, Paesi Bassi, Portogallo, Repubblica Ceca, Romania e Spagna) e i 4 associati all'Unione europea (Norvegia, Svizzera, Liechtenstein e Islanda) che hanno condiviso la Dichiarazione politica del 10 giugno, al momento solo Francia e Germania avrebbero dato seguito «all'impegno assunto con la formalizzazione di un primo pacchetto di ricollocamenti che interessa i migranti sbarcati in Italia». E neanche nei Paesi di partenza dei flussi le attività dell'Europa vanno meglio.

 

In Libia, ad esempio, la tratta degli esseri umani non si blocca. Anzi. I mezzi navali inviati dall'Ue attraverso l'Italia, e il ministero dell'Interno nello specifico, sono sempre scarsi e in pessime condizioni. Attualmente, per pattugliare le coste così come viene richiesto dall'Europa, ci sarebbero non più di 10 motovedette e qualche gommone. Troppo poco per gestire un fenomeno di proporzioni enormi.

Eppure le richieste di aiuto da parte della Libia, negli anni, non sono mancate. Soprattutto sono state avanzate proposte per arginare il flusso delle partenze attraverso i rimpatri nei paesi d'origine. Ma un vero aiuto da parte dell'Europa non è mai arrivato. Stallo anche sulla creazione di un maxi centro per il rimpatrio sempre nel Paese nordafricano.

I libici non hanno mai gradito questa opzione perché questo vorrebbe dire gestire enormi presenze sul territorio nazionale con le conseguenti problematiche sociali e di ordine pubblico. E poi ci sono le missioni Ue nel Mediterraneo e in Libia. Anche queste non riescono a portare nessun risultato tangibile perché, spesso, affrontano il problema in modo sbagliato. Irini, la missione navale per il controllo dell'embargo sulle armi, nata dalle ceneri di Sophia, non è stata mai riconosciuta dallo stato libico perché considerata in contrasto con la sovranità marittima. E anche Eubam, la missione che tra le altre cose dovrebbe fornire supporto per il controllo delle frontiere, non è in grado di fermare il traffico di esseri umani. Spesso, infatti, i referenti che l'Ue sceglie sul terreno si rivelano poco affidabili. Come nel caso dei finanziamenti per la gestione dei centri di accoglienza, non di rado finiti in mani sbagliate per colpa di un sistema di appalti che non prevede alcuna vigilanza esterna. 

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