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Covid, Cina bloccata e il mondo trema: il rischio lockdown a Pechino mette i mercati in allarme

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Filippo Caleri
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La Cina torna a far paura al mondo. Non per la sua potenza economica ma per la possibilità non più remota che, il suo sistema produttivo, si blocchi nuovamente. Uno stop che potrebbe comportare uno sconvolgimento della catena mondiale di approvvigionamento produttivo non più sostenibile dai sistemi occidentali. L’allarme è suonato ieri. Dopo il blocco di Shangai, l’ipotesi del lockdown si è fatta concreta anche per la capitale cinese, Pechino.

La finanza, che anticipa sempre le tendenze economiche ha fiutato il pericolo, ha iniziato a vendere a mani basse attività finanziarie e materie prime. Così quella di ieri è stata una giornata fortemente negativa per il petrolio che è crollato ai prezzi minimi da circa due settimane, estendendo il calo degli scorsi sette giorni a causa della preoccupazione che le prolungate chiusure dovute al Covid a Shanghai (insieme agli aumenti dei tassi di interesse da parte della Fed negli Usa) possano danneggiare la crescita economica globale e la domanda di barili. Dopo i rincari spinti dalla crisi ucraina che hanno mandato i prezzi sopra i 120 dollari, ieri il Wti, l’oro nero quotato negli Usa, ha ceduto il 4,20% a 97,8 dollari al barile. Quello europeo, estratto nel mare del Nord, il Brent, ha lasciato il 4,07% a 102,32 dollari.

Una frenata ingenerata dal combinato disposto della chiusura di Shanghai, dove le autorità hanno alzato recinzioni all’esterno degli edifici residenziali, e dal possibile stop alla vita civile a Pechino, dove molti hanno iniziato a fare scorte di cibo, temendo il lockdown dopo la notizia di alcuni casi. «L’inasprimento delle restrizioni Covid a Shanghai e i timori che Omicron si sia diffuso a Pechino, hanno affossato la fiducia» hanno spiegato gli analisti.

Intanto, secondo Bloomberg, la domanda cinese di alcuni tipi di carburante (benzina, diesel e cherosene per l’aviazione) è diminuita del 20% ad aprile rispetto a un anno fa. Tutto questo ha fatto crollare le Borse asiatiche con lo Shanghai Composite che ha perso il 5,3% a 2.929 punti e l’indice Shenzhen Component a -6,1% a 10.379 punti, ai minimi da quasi 2 anni. I timori sono stati amplificati dai media statali hanno riferito che ai residenti è stato ordinato di non lasciare il distretto di Chaoyang a Pechino dopo i casi di Covid riscontrati nel weekend.

Il calo dei prezzi petroliferi potrebbe sembrare una buona notizia per i consumatori, costretti negli ultimi mesi a costi per il carburante mai visti prima, e a sopportare l’aumento dei prezzi dei beni per l’incremento dei costi del trasporto. Probabilmente i riflessi dei ribassi saranno visibili nelle prossime settimane. Ma, come la fiammata non ha portato effetti positivi sui bilanci delle famiglie, il repentino rallentamento nasconde un’insidia ancora più letale. E cioè il blocco della catena di approvvigionamento e di fornitura globale del sistema produttivo del pianeta. Che in tempi non sospetti ha preferito decentrare la produzione di componenti e chip nei paesi dell’Est asiatico. La globalizzazione, che per anni ha tenuto bassa l’inflazione, e distrutto posti di lavoro in Occidente, ora presenta il conto.

Il pensiero è rivolto alle fabbriche cinesi che impiegano milioni di operai per costruire tutto: dai pneumatici ai chip dei telefonini. E alle centinaia di migliaia di container stipati nei grandi hub logistici della Cina, come Shangai appunto, che restano sui dock in attesa dell’allentamento delle misure restrittive imposte alle città portuali.

Ecco, il grande pericolo che per ora è solo potenziale, è che la Cina si blocchi improvvisamente mettendo in crisi tutta l’economia mondiale che, dalle sue braccia, ormai dipende. Già ora i danni del primo lockdown sono evidenti. Le fabbriche di auto, ad esempio, non riescono a mantenere le consegne e l’evasione degli ordini perché mancano chip e parti vitali per costruire veicoli. Si può solo immaginare l’effetto catastrofico sulla produzione in Europa e negli Usa di un blocco di rifornimenti ancora più esteso e prolungato.

Per ora si tratta di un cosiddetto «cigno nero». Un evento messo in conto dagli analisti e dagli investitori ma di difficile realizzazione. Tale era però l’ipotesi di una pandemia mondiale nel 2019. Dunque tutto può accadere.

Pare quasi la scena del Risiko, il gioco da tavolo celebre negli anni ’80. Ma a voler giocare si può anche ipotizzare che la nostra società, come oggi conosciuta, sia seriamente a rischio. La Russia con la guerra, e il contestuale rialzo dei prezzi energetici, sta importando inflazione nei paesi occidentali. La Cina, dal canto suo, ha in mano la possibilità per fermare il complesso produttivo internazionale bloccando, causa Covid, le forniture. Pare quasi una strategia concordata tra le due nazioni più grandi ed estese del mondo che da tempo competono nel mondo per scalzare il dominio commerciale e geopolitico degli Usa. È solo un’ipotesi di Risiko. Un gioco. Per ora.

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