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Mori si racconta dopo l'assoluzione sulla trattativa Stato-mafia: "Falcone mi disse: rivolgiti solo a me. Quel rimpianto su Riina..."

Giovanni Terzi
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L’appuntamento è fissato in Galleria Alberto Sordi di fronte alla sede del «Il Tempo»; un uomo dall’importante personalità e dai garbati modi mi si avvicina mostrando di riconoscermi nonostante la mascherina. L’incontro con il Generale Mario Mori, per me, non è semplicemente un’intervista ma un’esperienza con chi ha vissuto in prima persona gli ultimi sessant’anni della storia del nostro Paese servendolo in modo leale. Servire lo Stato anche quando una parte di questo ti processava, con inaudita pervicacia, senza mai commentare la sentenza che lo assolveva da ogni fatto contestato dopo più di vent’anni di processo: questo è il Generale Mori, sempre leale, preferisce la fermezza della ragion di Stato alle polemiche.

Generale, come e quando è nata in lei la scelta di entrare nell’Arma dei carabinieri? 
«Mio padre era ufficiale dei carabinieri e io stesso sono nato e cresciuto in una caserma a Postumia, nell’allora Friuli Venezia Giulia e attuale Slovenia. Ho sempre vissuto nell’ambiente dei carabinieri, così che ho potuto apprezzare ed amare l’Arma; per essere all’altezza ho naturalmente fatto gli studi cercando di costruirmi anche grazie ad una educazione scolastica abbastanza salda facendo il liceo classico al Virgilio di Roma».

Secondo lei, Generale, si è trasformata l’Arma dei carabinieri in questi anni? 
«Certo che sì ed è assolutamente normale; è un riflesso diretto della società quello di evolversi ed involversi con l’andare degli anni. Siamo in una società che ha perso i suoi valori fondativi: Dio, Patria e Famiglia. Purtroppo persi questi la società italiana non è riuscita a costruire quel substrato culturale e sociale che potesse essere il nuovo fondamento dell’essere uno Stato. Dall’altra parte con un corpo come quello dei carabinieri, con più di 8mila caserme in tutta Italia, il maresciallo fa parte della vita quotidiana dei cittadini».

Vuole dire che anche l’Arma dei carabinieri subisce lo sviluppo positivo e negativo della società?
«Certamente ed oggi mancano i valori su cui fondare la nostra società; anche la politica ha perso le ideologie degli anni passati e si affida oramai ai personalismi di qualcuno».

 

 

In prima persona lei ha vissuto gli anni del terrorismo finanche il sequestro dell’onorevole Aldo Moro: che anni erano quelli per il nostro Paese?
«Per me è stato un periodo molto istruttivo: c’era una grande vitalità nella società italiana e, per questo, le voglio fare un esempio. Io ero in via Caetani quel 9 maggio del 1978 quando venne ritrovato il corpo dell’onorevole Moro nel bagagliaio della Renault 4 rossa. In quel momento arrivarono insieme Cossiga, allora ministro democristiano, e il senatore del partito Comunista Ugo Pecchioli. In quel momento erano i due riferimenti certi dello Stato ed il loro posizionamento politico, agli antipodi, non influiva minimamente sulla loro rappresentanza. Cossiga, grande amico di Aldo Moro, poggiò la testa contro il muro e si mise a piangere; Pecchioli, con naturalezza e commozione, prese in mano la situazione. Lo Stato aveva dimostrato di esserci, unito e solido dimostrando un’azione corale di altissimo livello».

Lei ha conosciuto profondamente Cossiga che cosa pensa di lui?
«Il Presidente Francesco Cossiga l’ho frequentato fino alla fine dei suoi giorni ed è stato tra i migliori uomini che la politica italiana abbia espresso».

Parlando di quel periodo storico lei lavorò anche con il generale Dalla Chiesa, che rapporto aveva con lui?
«Dalla Chiesa aveva una personalità articolata e complessa, era un uomo dalle molteplici sfaccettature. Aveva uno stile ottocentesco sia nell’eloquio che nello scrivere ed era molto preciso in tutte le sue azioni professionali. Da una parte, come gli dicevo sempre, usava il codice Zanardelli dell’Ottocento, dall’altra era venti o trenta anni avanti nell’impostare le indagini. Dalla Chiesa era un vero e proprio manager su come impiegare e dotare il personale, oltre che nella capacità di quali mezzi utilizzare per sconfiggere la criminalità. Io sarò a lui sempre grato perché mi prese, poco più che ragazzino ed insieme ad altri colleghi, sotto la sua ala protettiva».

Perché scelse lei?
«Il generale Dalla Chiesa era un uomo meritocratico e decise di avere al fianco le persone con un livello di studio superiore ed avendo io una formazione classica ero avvantaggiato; era un uomo duro ma mai ha mancato di rispetto a qualcuno. Posso dire che è stato anche difficile lavorare con lui, ma sono onorato di averci collaborato».

La lotta al terrorismo venne fatta anche grazie alla collaborazione dei pentiti. Secondo lei Generale era possibile battere il terrorismo senza avere rapporti con i collaboratori di giustizia?
«Noi abbiamo sconfitto il terrorismo a prescindere dai collaboratori di giustizia. Però le do una risposta proprio rifacendomi a ciò che il Generale Dalla Chiesa insegnava. Fino ad un certo punto, appena si scopriva un brigatista rosso lo si arrestava; ad un certo momento si decise di lasciarlo libero e pedinarlo per scoprire i suoi sodali. Era il metodo OCP del Generale Dalla Chiesa: acronimo di osservazione, controllo e pedinamento. Così una volta mi presentai da Achille Gallucci, capo della Procura di Roma, con le foto di alcuni Brigatisti Rossi tra cui Varzi e Pancelli chiedendo la possibilità di pedinarli; fu così che facemmo fuori la colonna romana delle BR a prescindere dai collaboratori di giustizia».

 

 

Quale terrorista italiano l’ha maggiormente impressionata?
«Pietro Mucchi, capo di Prima Linea. Lo arrestammo in seguito di un conflitto a fuoco. Dopo un po’ di tempo ebbe un tracollo psicologico pazzesco e si mise a raccontare qualsiasi cosa, si stava scaricando senza che nessuno l’avesse invitato a parlare. Oltre a Mucchi, altri come Moretti, la Balzerani e Morucci erano di due categorie superiori dal punto di vista intellettuale».

Dopo il terrorismo lei ha combattuto e sconfitto la mafia. Che cosa è per lei la mafia?
«La mafia non è soltanto un fenomeno criminale, altrimenti sarebbe stata sconfitta, ma è soprattutto un fatto subculturale ristretto, che ha radici economiche, che sono capaci di rendere tutti omertosi e collaboranti. Un sistema economico che rende tutti complici. Da questo punto di vista l’evolversi della società ha reso possibile la sconfitta della mafia che rimane un fatto criminale, ma sempre meno culturale».

E dal suo punto di vista come è riuscito a combattere la mafia?
«Venivo dall’esperienza dell’antiterrorismo e si lavorava per fatti singoli utilizzando il metodo OCP».

Dove potevamo fermare la mafia?
«Nel business economico perché quando vai a toccare il “soldo” si scatenano. A Palermo la mafia condizionava gli appalti pubblici ed individuammo in Angelo Sino il "ministro dei lavori pubblici di cosa nostra". Quello fu un passaggio fondamentale. Così come fu fondamentale Giovanni Falcone e la sua battaglia, costatagli la vita, con la mafia: ricordo quando mi disse di consegnare a lui, nel febbraio del 1991, le 878 pagine di faldoni che io e De Donno avevamo preparato: "è l’unico modo perché si vada avanti", mi disse».

Quando catturò insieme a Capitano Ultimo Totò Riina cosa pensò?
«È stato un momento straordinario. Unico rammarico è non averne presi abbastanza di mafiosi. Se il giorno in cui arrestammo Riina lo avessimo seguito e non catturato subito, ci avrebbe condotti dritti a una riunione con altri capomafia. Li avremmo presi tutti in un colpo solo».

Cosa ricorda di quel momento?
«Gli occhi gelidi di Riina e la sua paura di essere stato preso da una cosca avversaria. Quando vide che eravamo carabinieri quasi si tranquillizzò».

Altra battaglia da lei svolta è stata con il terrorismo. L’Italia ad oggi non è stata mai attaccata in modo feroce dall'integralismo islamico come ma?
«Questo grazie alla presenza delle nostre forze dell’ordine e dalla capacità nostra di intelligence. Ad oggi tutto è davvero andato bene».

Una vita dedicata allo Stato, ha qualcuno che deve ringraziare in modo particolare? 
«Mia moglie, capace di darmi la libertà di lavorare e di crescere i nostri figli».

La nostra intervista è finita. Il Generale Mori si alza e mi saluta garbatamente. Rimango solo e torno verso casa con una domanda: «ma un uomo così andava processato per venticinque anni?».
 

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